E cosa succederà domani? Che ne sarà di noi alla fine di questo tempo sospeso? Marino Niola insegna antropologia al Suor Orsola Benincasa di Napoli. Osserva, studia, analizza i comportamenti e i continui adattamenti dell’uomo, i suoi riti, le sue abitudini e anche i repentini cambi di passo quando vi è costretto da una realtà che improvvisamente cambia assetto.
“Nel dolore di questi giorni non avvertiamo quel che di buono succederà. E invece c’è tanto. Anzitutto la società digitale è divenuta una realtà. A una velocità pazzesca ci siamo impadroniti del computer, istituzioni impolverate e austere, penso all’università, alle burocrazie dello Stato, si sono trovate nella condizione di apprendere prestissimo un nuovo sistema di trasmissione delle conoscenze e delle competenze. In tempi di pace ci sarebbero voluti vent’anni; in tempo di guerra, perché siamo in guerra, sono bastati 20 giorni”.
Il computer era il segno delle nuove solitudini, di un mare sommerso che si affacciava al mondo odiandolo.
E invece le famiglie, costrette a stare a casa, hanno scoperto il valore della comunità virtuale. Questo virus ha smaterializzato la società, ha polverizzato la comunità materiale. Il distanziamento sociale è la negazione del segno quotidiano della nostra vita. Il divieto di abbracciarsi è contro la nostra natura di uomini e, per noi italiani, anche di più. Grazie alla rete le nostre vite invece si sono potute tenere in piedi. La rete, che ieri ci isolava e spesso da cittadini ci trasformava in odiatori, ci collega, anzi ci unisce. È lo strumento che ci permette di sentirci solidali, informati, vivi. Anche questa è una novità non da poco. È perfino cambiata la nostra prossemica e l’emoticon è divenuto il suo sostituto funzionale. Adoperiamo le faccette per dire e fare quel che non ci è permesso: baciare, abbracciarci, piangere, sorridere, sfottere.
Finirà questo tempo e tutto ritornerà come prima.
Nulla sarà più come prima, ma il futuro che vedo dietro l’angolo di questa disperante crisi ci renderà migliori, in una società più solidale.
Perché dovremmo essere migliori se le nostre condizioni economiche peggioreranno e tanti faranno naufragio?
Perché ogni dopoguerra mette in circolo una vitalità sconosciuta. Abbia in testa una molla e immagini di comprimerla. Oggi la nostra vita è compressa, è sotto vuoto, è ferma. Domani, quando la pressione svanirà, quella molla ritornerà nella posizioni abituale, le energie si libereranno impetuose. Certamente saremo più poveri, ma perché più infelici? Questa guerra ci impone un’altra scoperta: riflettere e rivalutare le nostre abitudini. Eravamo piuttosto scontenti di esse e non sapevamo porre rimedio. Domani saremo costretti invece a inventarci un nuovo modello di stare al mondo.
Il dopoguerra seppellisce la società più fragile.
Questo sarà il lascito di un evento mai sperimentato prima e così drammaticamente pauroso.
Gli statistici indicano una platea di contagiati, la linea plausibile del virus in circolo, in un numero dieci volte superiore a quello delle cifre ufficiali. E i morti quadruplicheranno.
Non riesco a valutare le cifre. La mia osservazione, e non credo che sia vittima di un ottimismo sfrenato, mi induce a pensare a un domani comunque ricco di grandi possibilità. È una ricchezza diversa da quella che immaginavamo, certo. Dovremo regolare la nostra vita a un ritmo forse più basso, questo sì. Però resisto nella mia considerazione: la società che uscirà da questa prova sarà piena di vitalità e densa di talenti che avranno la possibilità di mostrarsi. E alcune conquiste, che non riusciamo a cogliere del tutto, le stiamo già vivendo.
Ne dica due, di queste conquiste.
Il tempo. Ci mancava sempre tempo. Per i nostri piaceri e per i nostri doveri, per i figli o per la cucina. Per la riflessione, per il sentimento. Riacquistare forzosamente un tempo così lungo è per un verso traumatico, per un altro benedetto. Siamo costretti a pensare alla nostra vita, e sicuramente a ripensarla. Soprattutto a evitare gli errori della nostra vita precedente. È poco?
In tanti perderanno il lavoro. Le sembra niente?
Il lavoro cambierà, muterà faccia. Potrei risponderle: è vero anche il contrario. Cioè in tanti lo troveranno. Quel che non sappiamo è come sarà: il suo valore economico, la sua qualità. Effettivamente, qui concordo, sono interrogativi di non poco conto.
La seconda conquista di cui facciamo fatica ad accorgercene?
I figli hanno ritrovato casa. Stanno scoprendo cos’è una famiglia, stanno parlando con i genitori. E i genitori stanno scoprendo cosa vuol dire avere dei figli. Pensavamo che i nostri ragazzi non avessero altro Dio che lo spritz, il pub, la piazza o internet. Invece, a quanto vedo e sento, stanno apprezzando la casa.
Tutte cose belle sotto il cielo però di questa grande angoscia, questa grande paura.
La storia dell’uomo è fatta di angosciosi eventi, la storia italiana ha conosciuto grandi e ripetute epidemie. Nulla di nuovo sotto il cielo. Anche se è terribile dirlo.
Lei vive a Napoli, e al Sud l’emergenza stringe ai fianchi perché l’economia è più debole.
Napoli se la cava bene con lo stato d’emergenza perché vi è abituata. E in genere il Sud è più propenso a fare rete, a resistere salendo sulla scialuppa familiare. Abito in centro e qui non ci sono i supermercati delle periferie. Ancora sono tanti e vivi i negozietti – appunto la rete della prossimità – con una attitudine alla solidarietà che altrove è perduta.
Mi faccia un esempio.
Il mio fruttivendolo. Lo chiamo e mi consegna la verdura e la frutta a casa. Gli ho chiesto di darmi l’Iban bancario perché non vorrei privarmi del contante. Mi ha risposto: non si preoccupi, quando tutto sarà finito mi pagherà. Non credo che da Esselunga sia possibile. Davvero penso che sarà un mondo nuovo. E non è detto che non ci piaccia.