Il peccato originale. C’è stata una falla nei primi giorni del contagio, quelli cruciali, quelli in cui era ancora possibile fermare, o almeno rallentare, il disastro in Lombardia. Per capire è necessario tornare ai giorni di fine febbraio, ad Alzano Lombardo. L’assessore regionale Giulio Gallera, che si presenta ogni giorno in tv come il valoroso comandante in capo dell’esercito in guerra con il virus, ha spiegato a Peter Gomez, a Sono le venti: “Abbiamo condiviso con il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, la necessità di una zona rossa nell’area di Alzano. Era il mercoledì della seconda settimana. Poi abbiamo atteso, giovedì, venerdì, ma il governo questa decisione non l’ha assunta.
Dopodiché, sabato o domenica ha preso una decisione molto forte, di chiudere l’intera regione. Sul perché non l’abbia assunta dovete chiederlo a Conte, non a noi”. Il “mercoledì della seconda settimana” di cui parla Gallera è il 4 marzo, poi l’8 marzo il governo “chiude” l’intera Lombardia. Ma che cosa succede prima di quel 4 marzo? La crisi inizia domenica 23 febbraio. All’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo, Val Seriana, 6 chilometri da Bergamo, sono accertati due casi positivi di Covid-19. Nei giorni precedenti era scoppiato il primo focolaio a Codogno, in provincia di Lodi, che era però stato subito chiuso dal governo, d’intesa con la Regione, in una “zona rossa”. Ad Alzano non si chiude niente. L’ospedale viene fermato solo per poche ore. Nessuna sanificazione, nessun percorso differenziato per chi ha i sintomi del virus. Nessun tampone. Il contagio si diffonde.
Ecco la falla. Perché la Regione non è intervenuta? I pazienti dimessi dall’ospedale, i loro famigliari, i medici, gli infermieri, i cittadini di Alzano sono lasciati andare in giro a diffondere il virus. Le fabbriche restano aperte. Aperti gli impianti sciistici della vicina Valbondione. L’ospedale diventa una bomba a orologeria. Si ammalano il primario e giù giù medici, infermieri, portantini. Si ammalano i pazienti dimessi e tornati a casa, si ammala chi entra ricoverato per una frattura ed esce infetto. Niente mappatura, niente tamponi, niente separazione dei contagiati. I malati crescono soprattutto nel paese vicino di Nembro. Il presidente Attilio Fontana e l’assessore Gallera temporeggiano. Intanto il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e quello di Milano Giuseppe Sala invitano a non fermare le città e a uscire per l’aperitivo (hashtag: “Milano non si ferma”, “Bergamo non si ferma”). Risultato: ad Alzano più di 50 morti in tre settimane. Poi l’onda nera arriva a Bergamo: oltre 4 mila positivi, quasi 400 morti. Il 1 marzo, Fontana annuncia: “Da stamattina siamo in collegamento con il presidente del Consiglio Conte, per arrivare a un decreto”. Gallera quel giorno è ottimista: dichiara che 60 persone sono guarite e gli accessi agli ospedali diminuiscono. Arriva un decreto blando, che non chiude le attività e lascia aperte, per esempio, le società sportive. Il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità (Iss) stila una nota – scoperta e raccontata dalla giornalista Francesca Nava sul sito Tpi.it – in cui propone la creazione di una “zona rossa” per isolare il “cluster” infettivo di Alzano e Nembro. La Regione, che potrebbe decretarla subito, aspetta le decisioni del governo. Il governo decide solo sei giorni dopo, l’8 marzo, con il decreto che dichiara tutta la Lombardia “zona arancione” e blocca 11 milioni di persone. Troppo tardi. Bastava chiudere – ma molto prima – un’area di soli 25 mila abitanti. Non è stato fatto: per non fermare le fabbriche e le attività produttive della zona, ipotizza Francesca Nava, per non bloccare quasi 4 mila lavoratori, 376 aziende, un fatturato di 680 milioni. I dieci giorni cruciali, dunque, sono quelli tra il 23 febbraio, quando il contagio inizia a diffondersi nella Bergamasca, e il 2 marzo, quando l’Iss chiede la “zona rossa” ad Alzano. Poi altri sei giorni, dal 2 all’8, quando Regione e governo si palleggiano le responsabilità. Dopo è tardi: il contagio dilaga a Brescia, arriva a Milano.