Sul campo della battaglia anti-Covid arriva la diagnostica sierologica. Tradotto: un’analisi del sangue per andare a caccia degli anticorpi che hanno sconfitto il virus. La presenza o meno di questi dati potrà essere un lasciapassare di immunità da dare in mano a determinate categorie per tornare a lavorare.
A dar fuoco alle polveri è la Regione Veneto che ha già varato un progetto in questo senso, acquistando 700 mila kit rapidi da testare prima di tutto sugli operatori sanitari. Una scelta che, a quanto risulta al Fatto, viene concretamente valutata da giorni anche sui tavoli della Regione Lombardia. Qui la prossima settimana si riunirà una commissione per decidere come procedere. Ma non è tutto così semplice come appare. Il primo dato cruciale è capire quanto dura l’anticorpo. “Questo – spiega la professoressa Maria Rita Gismondo del Sacco di Milano – sarebbe un buon metodo per capire chi è immune. Le esperienze sugli altri quattro coronavirus ci dicono che gli anticorpi durano non oltre i 30 giorni”. E questo è un problema perché non sapendo la durata degli anticorpi si rischia di rimandare al lavoro persone che dopo poche settimane non sono più immuni. Il che pone un rischio rispetto alle politiche di riapertura delle attività economiche: una seconda ondata del virus che si sta già verificando in Corea del Sud e a Hong Kong.
Dall’analisi del sangue noi possiamo trovare due tipi di anticorpi collegati tra loro: gli IgM (immunoglobina M) che vengono sviluppati nella fase acuta della malattia e gli IgG che arrivano dopo con un picco a tre settimane dalla malattia. Sono gli IgG che, nella logica della diagnostica sierologica, ci permettono di dire che una persona è immune. La dottoressa Gismondo, oltre a partecipare al tavolo regionale per i kit rapidi, da settimane lavora sul sangue anche di pazienti non Covid che a dicembre hanno avuto polmoniti strane. L’obiettivo è individuare gli anticorpi e studiarli in una prospettiva farmaceutica e poi vaccinale. “Sulla comparsa degli anticorpi – prosegue Gismondo – la loro presenza dipende dalle singole sintomatologie dei pazienti”. Il mantra resta lo stesso: di questo virus sappiamo poco. “E quindi – prosegue la professoressa – anche i kit che ci vengono proposti sono basati sui casi recentissimi di Wuhan”.
Che, al massimo, tornano indietro di due mesi, tempo troppo breve per capire con certezza la durata dell’anticorpo. Sono oltre 200 i kit proposti. “Non tutti sono validi – spiega Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano – e questo può costituire un rischio nei risultati. Di certo la strada è giusta”. Quale kit usano in Veneto? A quanto risulta al Fatto si tratta di uno dei migliori e affidabili sul mercato. L’ultima parola a livello mondiale spetta però all’Oms che in queste ore sta scrivendo una lista non delle aziende che producono kit, ma delle caratteristiche diagnostiche essenziali.
La vera incognita resta sempre la durata dell’anticorpo. I recenti esperimenti sulle scimmie, infettate, guarite e subito esposte al virus, parlano di un’immunità di circa due mesi. Sempre comunque poco in una situazione dove allo stato manca un vaccino o una terapia certa. “A oggi – spiega Remuzzi – la cosa più sicura è che di questo virus sappiamo ancora pochissimo e poco sappiamo di quanto dura un anticorpo”. Sappiamo, però, quali sono i target da analizzare: non certo i sintomatici che di per sé sviluppano gli anticorpi, né i paucisintomatici, visto che a oggi (passato il periodo dell’influenza stagionale) anche un singolo sintomo è con buona certezza riconducibile al Covid.
I target sono gli asintomatici che hanno avuto contatti con infetti. Per questo le categorie che prima di altre devono essere testate sono gli operatori sanitari, ma anche i cassieri o gli autisti dei mezzi pubblici. Oggi, poi, i kit danno una risposta solo qualitativa. “Dicono cioè – spiega la dottoressa Ariela Benigni, coordinatrice delle ricerche al Mario Negri di Bergamo – se gli anticorpi ci sono o meno, non ci dicono in quale quantità sono presenti”. Particolare di non poco conto per prevedere la durata dell’immunità. “Quelli attuali – prosegue la scienziata – al passaggio del sangue mostrano una banda a seconda che trovino anticorpi IgM o IgG”. Gli IgG mostrano una immunità più lunga e restano nella memoria di alcune cellule del sangue che, stimolate anche a distanza di tempo, possono tornare a produrre anticorpi. Questo succederebbe quasi certamente con un vaccino, ma anche con Sars-Cov2 se però si ripresentasse identico, cosa improbabile visto che i virus a Rna, come tutti i coronavirus, sono soggetti a mutamenti costanti e sempre imprevedibili.