In un angolo, nove sacchi trasparenti che neppure noti tra le attrezzature ancora imballate di questa terapia intensiva allargata d’urgenza. Ma poi, dentro, intravedi delle Nike da corsa, un Twix. Un orologio. Sono gli effetti personali dei 10 ricoverati: uno è stato appena consegnato alle pompe funebri. Perché ora che i funerali sono sospesi, questo è tutto quello che la tua famiglia rivedrà di te.
Muori solo, a Bergamo, senza avere accanto i tuoi cari. E solo vai al cimitero, con un prete che benedice la tua bara con un iPhone sopra perché a casa possano sentire. Fino al 10 marzo, il Policlinico San Pietro, parte del Gruppo San Donato, quello del San Raffaele di Milano, era rinomato per altro: fecondazione assistita e ortopedia. Non aveva mai avuto un reparto Malattie Infettive: ora, invece, i suoi 254 posti sono tutti Covid-19. E i 4 di terapia intensiva sono diventati 10. Ma quella che un tempo era l’area dei malati più critici, ora è riservata a quelli con più probabilità di sopravvivere.
Mentre scrivo, in Italia siamo a 92.472 contagiati e 10.023 morti, e la Lombardia, con le sue 5.944 vittime, resta la zona più rossa. Tra i positivi, qui si ha un decesso ogni 3 minuti e 35 secondi. “E un po’ è anche l’effetto dell’ordine di curarsi a casa il più a lungo possibile. Di telefonare al 118 solo quando proprio si fa molta fatica a respirare”, dice Bruno Balicco, il medico che attualmente è tornato dalla pensione a dirigere il reparto, perché il primario si è ammalato di Covid-19. Un ordine inevitabile, perché gli ospedali sono intasati. E le bare così tante, che è l’esercito a portarle via. O si avrebbe un’epidemia nell’epidemia. “Ma così i malati arrivano qui allo stremo. Con i polmoni ormai compromessi”, dice. Come il paziente 6, che nonostante i tubi, cerca aria. Disperatamente. Ha 67 anni, e nessun’altra patologia. Alla sua sinistra, un monitor indica frequenza cardiaca, pressione, temperatura e livello di ossigeno nel sangue. Ora che ai parenti è vietato entrare, questo è tutto quello che si sa di una vita: cifre, diagrammi, percentuali. Su un ripiano, accanto a due boccette di medicine, non c’è che un foglio fitto di tabelle, ma non c’è il nome.
A un tratto, il corpo ha come un sussulto. E si accende una luce rossa. Un’infermiera si precipita, gli armeggia intorno. Fino a quando la luce si spegne. Dopo un paio di minuti, inizia a lampeggiarne un’altra. “I malati sono tutti uguali – dice Balicco –, hanno tutti lo stesso virus, ma sono tutti diversi. L’evoluzione varia. E quindi, varia l’effetto dei farmaci con cui tentiamo di trovare una cura. Per cui la mortalità non è alta, è vero, rispetto all’altissimo numero dei contagiati. Ma ti senti sopraffatto, perché dimesso uno, arriva un altro: e sostanzialmente, ricominci da zero”.
Polmoniti così, qui erano tipo cinque l’anno. Ora anche 50 al giorno. E al momento la terapia più avanzata consiste nel somministrare ossigeno, e intanto, alleviare il senso di asfissia con antidolorifici. O il coma indotto, nei casi più estremi. Perché l’organismo abbia più tempo di reagire e arrivare da sé dove i farmaci ancora non arrivano.
Ha l’aria stravolta Balicco, come tutti i medici e gli infermieri. Da quando si sono imbattuti nelle prime polmoniti anomale, verso febbraio, è stato tutto rapido, un giorno era un malato, e il giorno dopo dieci: e da piccolo ospedale di provincia, si sono ritrovati al fronte.
Il paziente 6 cerca aria, ancora, boccheggia, si agita, benché sedato. Scosso da fremiti. E a ogni fremito, reclina un po’ il capo, schiude gli occhi, questi occhi rovesciati. Bianchi. Un’infermiera gli aspira la saliva, mentre sullo schermo il numero blu del livello dell’ossigeno nel sangue, che dovrebbe essere 100, scende a 93, poi a 90. Poi risale, 91. Scende di nuovo. Sembra non assorbire l’ossigeno. Si avvicina un’altra infermiera. “Chiamo il dottore”, dice. “Chiama la famiglia”.
Intanto hanno rintracciato la figlia della signora di 70 anni morta ieri. Continuavano a chiamare il marito: che intanto, è finito in ospedale anche lui. “Arrivo subito”, dice la figlia. E Silvia Vanalli resta un momento in silenzio. “No, in realtà… No, non può”, dice. “Neppure adesso”. E la voce si schianta in frantumi. “Abbiamo tentato di tutto. Di tutto. Fino all’ultimo”, dice. “Con la sua mano nella mia. Come… Come fosse stata la sua, giuro. La sua”, dice, e a ogni parola, sembra sparire un po’ di più nella sua tuta bianca tipo Chernobyl, con il nome scritto a pennarello per distinguersi dagli altri, perché questo virus ci ha reso tutti uguali. “E ora?”, ripete la figlia. “E ora? E ora bisogna organizzarsi con le pompe funebri”, dice. E resta così, a singhiozzare con il telefono a mezz’aria.
Mentre il resto del Paese si scambia ricette di torte e consigli contro la noia, qui è trincea. Con il rimorso con cui convivono tutti i veterani: il rimorso di avere la guerra addosso, e trascinarci dentro anche chi si ama. E non l’ha scelta.
“A casa parlo con il mio compagno da dietro una porta”, dice un’infermiera. “Ma onestamente, se posso non parlo proprio. Perché sono qui, pronta a rischiare tutto per degli sconosciuti: ma poi lascio solo chi non mi ha mai lasciato sola”, poi mi fissa e non dice niente e prepara una siringa. E torna dal paziente 6. Che ancora cerca aria. Ancora si agita.
“Tranquillo” gli dice, ma le luci rosse continuano ad accendersi, e il numero blu continua a scendere: e a ogni fremito, sembra quasi volersi liberare dai tubi. Da un angolo, sembra avere lacrime. Chi è? Di dov’è? E cosa fa, nella vita? Quale sarà il suo sacco, all’ingresso? Quello con le Nike da corsa? Chi lascia? E quanto comprende di tutto questo? Quanto sente? Quanto vedono, questi occhi che sembrano guardarti? “Tranquillo. Tranquillo”, gli ripete, con la voce che si fa un sussurro, sempre più, mentre gli asciuga via le lacrime e lo accarezza, piano. E fermo, lo accompagna via.