Alla fine il piano si chiama “Sure”, ma è una base di negoziato per costruire la cosa più simile agli Eurobond (o Coronabond) che l’Unione europea è in grado di produrre in questo momento. Vale 100 miliardi, può aggirare il veto di Olanda e Austria e ottenere il via libera della Germania.
Annunciato mercoledì dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il piano Sure (“sicuro”, in inglese) prevede interventi a beneficio dei Paesi più colpiti dalla crisi “come Italia e Spagna”. Saranno fondi assegnati a ciascun Paese, ma raccolti dall’Unione europea nel suo insieme, attraverso un’emissione di debito congiunta e garantita da tutti gli Stati. Ci sono alcune piccole ma cruciali differenze con lo schema di intervento previsto dal fondo salva-Stati Mes che l’Italia, con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, prima ha auspicato e poi rifiutato per timore che il prestito avrebbe avuto abbinate condizioni troppo pesanti.
La prima differenza col Mes è che Sure è un intervento di tutti i Paesi dell’Unione, non soltanto di quelli dell’eurozona. Le basi legali stanno nel trattato fondamentale dell’Ue, in quell’articolo 122 che è stato usato già nel 2010 per un primo schema di intervento di emergenza: per un prestito ponte alla Grecia e soprattutto per dare 24,3 miliardi al Portogallo e 22,5 all’Irlanda con il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (Efsm), prestiti agevolati senza il monitoraggio della “troika” (Commissione, Bce, Fondo monetario). Visto che è già stato fatto e dopo soli due anni – nel 2013 e 2014 – Portogallo e Irlanda sono tornati a finanziarsi normalmente sul mercato, Olanda, Austria e asse del Nord non possono opporsi troppo. Come dieci anni fa, per attivare Sure serve una decisione del Consiglio europeo a maggioranza qualificata: 15 governi su 27 devono approvare, il fronte pro-Eurobond conta già nove Paesi, guidati da Francia e Italia.
L’altra differenza rispetto all’intervento del Mes sta nelle condizioni da rispettare: il Paese che chiede l’intervento deve soltanto provare di aver subito danni da Coronavirus e che userà i soldi per integrare misure limitate nel tempo e necessarie a gestire l’emergenza (tradotto: si possono usare i miliardi europei per pagare integrazioni al reddito o garantire liquidità alle imprese ma non per infrastrutture o misure strutturali tipo una riforma delle pensioni).
Italia, Francia, Grecia, Spagna e il fronte degli Eurobond ottengono quindi un primo risultato: c’è una reazione comune, politica, dell’Unione e viene fissato il principio che mitigare l’effetto della pandemia è questione separata da ridurre debito e deficit pubblici. Il nuovo strumento ha anche parecchi limiti che possono ridurne l’efficacia, ma è presto per dire se è il punto di arrivo o il grimaldello per scardinare l’asse del Nord e produrre qualcosa di più ambizioso (nel 2010-2011 cose che parevano impossibili sono poi state fatte nel giro di poche settimane).
Per quanto riguarda l’Italia, Sure ha due limiti principali: ci sono 100 miliardi disponibili, ma l’articolo 9 della bozza di regolamento stabilisce che i tre Paesi che beneficiano di più dell’aiuto non possano ottenere più di 60 miliardi e – cosa inspiegabile – si legge che “l’ammontare dovuto dall’Unione in un dato anno non può eccedere il 10 per cento” dei 100 miliardi, cioè 10 miliardi. Quindi nel 2020 l’Italia potrebbe avere, nel migliore dei casi 10 miliardi? Pare strano possa essere questa la versione finale del testo.
L’altro limite, più strutturale, è che non si tratta di interventi europei in un Paese membro, ma di prestiti contratti dalla Commissione e girati a un singolo Stato. Che vanno quindi a sommarsi all’indebitamento pregresso. Ma i mercati potrebbero guardarli con occhi diversi e non fare una vera addizione, perché sempre all’articolo 9 si legge che se uno Stato non rimborsa, la Commissione è autorizzata a fare “roll over” del suo debito, cioè a rifinanziarsi. In pratica è vero che i singoli governi devono dare garanzie per permettere l’emissione dei nuovi titoli – cosa che di per sé rende il debito pregresso meno garantito e più costoso –, ma il fardello e il rischio sono davvero condivisi dall’Unione. Sono tecnicalità, ma il segnale politico è chiaro: le istituzioni europee – Commissione e Bce – sono impegnate per una reazione comunitaria alla crisi, anche per non lasciare argomenti a sovranisti e nazionalisti.
Resta da vedere se questa spinta è sufficiente a superare le resistenze di singoli Stati membri, come Olanda e Austria (in Germania c’è, come sempre, più dibattito). Il primo test per capirlo sarà l’Eurogruppo, cioè la riunione dei ministri economici della zona euro del 7 aprile.