Uno dei primi nomi dell’elenco è serbo: Ana Lalic. La corrispondente del media Nova.rs “ha causato panico diffondendo notizie non verificate” sul Covid-19, raccontando del lavoro del personale medico impossibilitato a garantire la sicurezza dei pazienti in un ospedale della Vojvodina. È stata arrestata di notte dalla polizia di Novy Sad, rilasciata qualche giorno dopo con la fedina penale sporca e a mani vuote: con computer e telefono confiscati non può più lavorare.
Il virus costringe molti in affollate corsie d’emergenza dell’ospedale, altri nella tomba ed ancora altri ancora in cella. È il destino dei reporter che in queste settimane investigano su governi impreparati, inadeguati o indifferenti al diffondersi della pandemia. La ricerca della verità sul Coronavirus conduce spesso alle sbarre, da Gaza al Venezuela: Darvinson Rojas è un giovane giornalista che tentava di documentare il suo Paese nel suo momento più cruciale. Le Faes, squadre speciali di Caracas, hanno pestato suo padre Jesus e poi interrogato lui per ore sul nome della fonte che gli ha fornito informazioni sul malsano stato di cose nello stato di Miranda.
“Arrestare giornalisti e interrogarli scoraggerà gli altri dal riportare della pandemia, chiediamo il suo immediato rilascio” ha tuonato il CPJ, Comitato Protezione Giornalisti, costretto a ripetere appelli contenenti questa stessa frase da inviare uguali, giorno e notte, da un lato all’altro del mondo, dopo una pioggia orizzontale e verticale di notizie di reporter arrestati, interrogati, espulsi, trascinati nel fango per essere screditati a puntino.
Uno dietro l’altro, episodi simili si inanellano da Minsk a Delhi. Nella siderale Bielorussia, per aver criticato l’inazione del presidente Aleksandr Lukashenko, il giornalista Siarhei Satsuk rischia una pena di dieci anni di carcere, ma in prigione intanto il suo Stato l’ha già rinchiuso. Il Corona rende letale ciò che era già pericoloso: dire la verità sotto i più duri regimi o nelle più autoritarie tra le democrazie. Giordania, Oman, Marocco, Yemen hanno limitato la diffusione di notizie. Teharan invece ha vietato la stampa dei quotidiani come misura necessaria di contenimento dell’infezione. Non potranno più sfogliare le pagine dei giornali cittadini storditi da proclami decuplicati in tv e radio, numerosi come i cadaveri nelle fosse dei cimiteri persiani, colme dei loro cari deceduti. Né potranno più leggere le parole di Mohammad Mosaed, giornalista economico che ha criticato le autorità, finito nel mirino delle temute Guardie rivoluzionarie, che hanno giudicato “criminali” i suoi commenti. Al parallelo di Addis Abeba Yayesew Shimelis, penna del giornale Feteh e volto della tv Tigray, pensa di essere finito in custodia per aver questionato i numeri dei contagi del ministero della Salute etiope, ma non gli sono state fornite accuse formali per cui ora conta solo le sbarre della sua cella. In Niger la sua storia si ripete uguale per Kaka Touda Mamane e in Zimbawue per Nunurai Jena. Sorti gemelle a quella di Siddharth Vardarajan, redattore al giornale The Wire, colpevole di aver firmato “un’indagine che semina discordia” secondo le autorità indiane, che hanno fermato le sue dita sulla tastiera con le manette.
Alcuni in faccia hanno la mascherina, altri la museruola: rappresentazione plastica del silenzio richiesto dalle autorità. Nella nebbia di informazioni approssimative fornite dalle fonti ufficiali, che sciorinano compiaciute ai microfoni cifre mendaci sul Covid-19, il clangore della censura a certe latitudini è sempre più assordante.
A colpi di decreti d’emergenza in Ungheria, Russia, Serbia si possono infliggere multe e anni di carcere a chi diffonde fake news sul virus. Si tratta di un flusso spiazzante di leggi repentinamente approvate che permettono però di neutralizzare, sopprimere, criminalizzare chi sfida, critica o indaga le versioni ufficiali di premier e presidenti dal pugno durissimo. Sono le nuove regole di ingaggio che minano ulteriormente la già ardua sopravvivenza del giornalismo d’inchiesta.
“Proteggere i cittadini della disinformazione”: dietro questa ragione nobile nascondono l’alibi dei loro reali intenti per la repressione della libertà di stampa capi di Governo da Budapest a Città del Capo fino ad Istanbul, dove centinaia di persone sono state fermate per aver fatto “commenti provocatori” sui social media sul Covid-19. In Cambogia per diffusione di false notizie ci sono stati 17 arresti. Sul sito del Governo sudafricano le dichiarazioni sul controllo della stampa sono similari a quelle del lontanissimo governo thailandese: verrà perseguito penalmente chi diffonde dati allarmanti sul virus. Se ci sono le impronte digitali delle autorità, lente nel prendere decisioni per salvare gli infetti, non bisogna comunque smentire la macchina governativa.
Imperativo è non scavare e tacere. Eppure si registrano atti di abnegazione di chi tenta anche in questo momento funesto di tributare riconoscimento alla cronaca della situazione reale, cercandola anche dove sembra impossibile trovarla.
Ruth Michaelson, corrispondente del britannico Guardian dal 2014, è stata costretta a lasciare lo Stato arabo più popoloso, l’Egitto, dopo che ha diffuso uno studio scientifico che ha fatto infuriare i servizi segreti del Cairo: ha riferito, citando accreditate fonti, che i contagiati nel Paese sono decine di migliaia e non solo 865, come dichiarato dal ministero della Salute all’ombra delle piramidi. Il suo permesso giornalistico è stato ritirato come la licenza dell’agenzia Reuters, sospesa per tre mesi dalle autorità irachene con una multa aggiuntiva di 25 milioni di dinari, oltre 20mila dollari per un motivo equivalente. L’agenzia giornalistica, fornendo numeri che contraddicono Bagdad, ha messo “a rischio la sicurezza irachena”. Nonostante minacce, interrogatori, paure e detenzione, altri giornalisti continueranno ad affacciarsi sulle loro nazioni vessate per raccontarle nel loro periodo più cupo, consapevoli che il nuovo virus è pericoloso, ma il silenzio è da sempre mortale.