Siamo in guerra! È la frase ripetuta con tetra insistenza per la pandemia Coronavirus. L’idea della guerra evoca la necessità di un nemico. Finché si pensa al virus, poco da dire. Ma in “questa” guerra contro un’infezione sconosciuta capita (sia in ambito nazionale che internazionale) di dover prendere decisioni ad alto rischio di errori, elaborando ex novo questa o quella strategia, spesso da adattare in corso d’opera al rapido mutare delle circostanze.
Queste decisioni, causa di disagi e ostacoli, a volte spingono a valutazioni nell’ottica prevalente di interessi propri, magari legati ad appartenenze politiche o geografiche. “Nemico” può allora diventare – piuttosto che il virus – “l’altro” da noi; per cui finita la guerra, oltre a contare i morti e i danni economici, si potranno registrare pure divisioni e fratture socio-politiche forse insanabili.
Il problema del “nemico” si pone anche per il carcere ai tempi del coronavirus. In particolare per la richiesta di amnistia/indulto, da sempre nel carnet di certi ambienti che l’hanno intensificata dopo le rivolte di 20 giorni fa nelle carceri. Il collegamento delle rivolte alle misure restrittive (colloqui) impartite in ragione della pandemia è debole: si è trattato di una trentina di episodi (con manifestazioni cruente d’altri tempi) che si sono accesi con una sincronia e una precisione di obiettivi comuni, così da legittimare più di un sospetto. In ogni caso, due giorni di furia e poi il nulla; eppure la restrizione dura ormai da settimane e le sofferenze dovrebbero essersi cumulate, certo non diminuite.
Comunque sia, il ministro Bonafede si è trovato incastrato nella trappola del “nemico” non appena ha imboccato la prospettiva di arresti domiciliari per i detenuti con un limitato residuo di pena per reati non gravi. La trappola è scattata su due fronti contrapposti. Da un lato, poiché fin dal suo insediamento egli ha fatto della “certezza della pena” una bandiera, certuni lo sfidano mettendo le sue scelte alla prova di una presunta contraddizione che sperano possa politicamente indebolirlo. Mentre altri lo spingono verso la pesante responsabilità di mosse estreme che potrebbero sembrare in collisione con gli interessi generali della collettività sul piano della sicurezza e della salute, dando l’impressione di anteporvi gli interessi dei carcerati.
In un contesto che sta presumibilmente registrando una diminuzione dei detenuti. Per il fatto che (nella contingente fase di emergenza) ne potrebbero entrare meno del solito; fuori infatti le priorità sono cambiate, essendovi purtroppo altro da fare: controllare, distanziare, trasportare bare in giro per l’Italia, aiutare ospedali e farmacie a ricevere materiali sanitari, sanificare strade ecc.
Quella dei numeri peraltro non può essere l’unica strategia. La riduzione del sovraffollamento è utile contro il coronavirus (da fronteggiare – beninteso – a tutela dell’intero mondo penitenziario), ma da sola non basta. Occorre anche altro. Solo che le carceri – come gli ospizi – sono luoghi dove la strategia esterna del distanziamento non potrà mai essere applicata. E idee praticabili che non siano troppo sbilanciate, è difficile (al di là della linea del salva-carceri) immaginarne. Con la conclusione, ovvia ma terribile, che il carcere oggi più che mai è un labirinto dove nessuno può vantare certezze o ricette taumaturgiche.
In mezzo sta la constatazione che, per la maggior parte della comunità esterna, “quelli” (quelli in carcere…) sono da sempre “nemici”: stranieri, gente senza fissa dimora, senza identità, tossici fastidiosi, poveri, soggetti alle prese con problemi psichici… E seppure non si arriva all’estremo disumano di pensare che in guerra i nemici si sacrificano, il sentire dei “benpensanti” innesca un’altra trappola del “nemico” che si riflette sulle misure alternative, proprio quelle invocate come possibile deflazione della perenne calca detentiva.
Tali misure infatti implicano una affidabilità che spesso manca a quei “nemici”, ai quali pertanto esse obiettivamente si attagliano poco in tempo di pace e ancor meno in tempo di guerra da Covid-19. Un altro aspetto con cui confrontarsi quando si tratta di stabilire ambito applicativo e modalità delle eventuali misure alternative. Comunque, un problema da bilanciare con le ragioni dell’umanità cui Papa Bergoglio si richiama indicando la strada di “scelte giuste e creative”.
In conclusione, dentro come fuori del carcere le paure, i rischi e le vittime del coronavirus ci fanno toccare con mano alcune fragilità della nostra democrazia. Una percezione che ricorda (sia pure con abissali distinguo) quella che di fronte alla peste portava a richiamare peccati e dissolutezze. Superata l’emergenza – si sente dire – niente sarà più come prima. Un auspicio perché la politica (trasversalmente!) torni a essere guida e non più mera caccia al consenso, senza quel miscuglio di invidia e malizia che è oggi la cifra prevalente. Con un forte recupero – da parte di tutti – di senso istituzionale, equilibrio e linguaggio adeguato.
Non proprio quel che oggi traspare dall’appello mistico di un Capitano per la riapertura delle chiese a Pasqua, contro la preghiera solitaria del Papa in piazza San Pietro: capace di dimostrare come persino il silenzio (i lunghissimi minuti senza parole di Francesco immobile davanti all’Ostensorio) abbia la virtù di costringere a pensare.