Evasori e mafiosi, imprenditori con denaro all’estero, ma anche società in paradisi fiscali, cacciatori di imprese già decotte. Sono tante le figure borderline che brindano al cosiddetto “decreto credito”, nato per garantire liquidità alle imprese messe ko dall’emergenza Covid-19. L’idea è garantire prestiti bancari con garanzia statale verso gli istituti di credito pressoché totale da parte dello Stato. Il poderoso aiuto pubblico dovrà ora passare al vaglio dell’Ue.
Nel frattempo molti nel nostro Paese iniziano a far di conto con l’obiettivo nemmeno tanto velato di intascare illecitamente fiumi di denaro. Ecco allora che il Fatto, dopo aver consultato diverse procure d’Italia, è in grado di mettere in fila alcuni punti critici. Partiamo da una evidenza quasi scontata, sulla quale ragioniamo con una fonte molto autorevole della Procura di Milano. Davanti a questo tsunami di denaro, il cui scopo di fondo è certamente positivo, mancano una serie di paletti che possano imbrigliare le infiltrazioni non solo della mafia.
L’obiettivo è quello di “garantire la continuità aziendale” messa a rischio dalla pandemia. Il termine però resta generico e non viene, al momento, arricchito da indicazioni specifiche. Risultato: in certi casi lo Stato rischia di garantire finanziamenti alla cieca aprendo la borsa per figure che non ne hanno diritto e sprecando risorse pubbliche. Perché se l’oggetto è la continuità aziendale, nella realtà non vengono esplicitate le regole attraverso le quali bisognerà indicare i passaggi dimostrabili di questa “continuità”. Ad esempio, se le aziende ottengono denaro dalle banche con facilitazioni sprint, in teoria dovrebbero essere obbligate a tracciare ogni pagamento effettuato, dagli stipendi alle spese per gli immobili. Al momento questi elementi, secondo gli esperti della Procura di Milano, non sembrano rientrare nel decreto.
Proseguiamo. Dai 25mila euro agli 800mila euro, tutti i range di prestiti si basano su una logica: più velocità, meno burocrazia. E dunque via libera al far west delle autocertificazioni dove molto si può dire e tanto millantare. Anche perché non vi è, in questo momento, alcun riferimento a norme penali chiare per i trasgressori. C’è poi la spada di Damocle del crimine organizzato che attende per entrare con i propri capitali sporchi. Nei giorni scorsi l’allarme è stato lanciato anche dal Procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho.
Di clan e denaro parla Giuseppe Borrelli, ex capo della Direzione distrettuale antimafia di Napoli e oggi procuratore a Salerno. Il quadro di Borrelli è fosco, ma allo stesso tempo ineluttabile: “Sono sicuro che il decreto attirerà appetiti e infiltrazioni delle mafie. Ma siamo in un’economia post bellica e le legittime preoccupazioni su elargizioni a imprese senza attenti controlli sui requisiti, non possono fermare la ricostruzione del Paese. Meglio questo che lasciar fallire aziende e attività e lasciare tanti disoccupati in balia della criminalità organizzata”.
La Procura di Milano rileva un altro dato: rapidità di erogazione e burocrazia snella mettono a rischio la presentazione, ad esempio, del certificato antimafia che in fatto di infiltrazione mafiosa è il minimo sindacale. C’è poi il fenomeno sempre più diffuso delle cosiddette “bare fiscali” rappresentate da un risiko vastissimo di società decotte o per le quali è già stato emesso un fallimento dal tribunale. Il rischio qui è che capitali oscuri possano rastrellare queste imprese per poi andare ad attingere prestiti su cui la garanzia dello Stato è del 100%.
Crimine organizzato però non sono solo i boss e i narcos, ma anche i colletti bianchi. Una zona grigia che si allarga sempre più a professionisti che si prestano alle cosche solo per brevi momenti e che per il resto del tempo manovrano capitali. Molti di loro, lo sappiamo bene, stanno all’estero. Il decreto su questo però non dice nulla. E dunque, la domanda è: finirà che questi 400 miliardi andranno anche a coloro che evadendo tengono i soldi fuori dall’Italia? E che dire allora delle stesse società e holding che pur italiane hanno la loro sedi, ad esempio, in Olanda o in Liechtenstein. Il decreto non impone un paletto che le possa escludere.
Come si vede i soggetti sono tanti e il campo da gioco vasto. Diventerà inafferrabile se non vi si porrà rimedio. Una soluzione, ci spiega un magistrato di Milano storicamente esperto in indagini finanziarie, ci sarebbe e consisterebbe nel tracciare le singole persone che chiedono l’accesso al prestito. “Basterebbe – ci viene spiegato – che il nominativo dalla banca fosse comunicato allo Stato e qui frullato nelle varie banche dati (da quelle fiscali e a quelle penali fino ai registri delle imprese all’estero), il risultato si otterrebbe in pochi minuti”. E tutto apparirebbe molto più trasparente.