L’anomalia dell’alto numero di decessi italiani per coronavirus rispetto a quelli del resto del mondo si spiega con il nostro metodo di classificazione. Esso considera morti per Covid-19 tutti i deceduti di polmonite, arresto cardiaco, cancro, etc. che abbiano contratto anche il coronavirus. In quasi tutti gli altri Paesi il virus non viene computato come causa di morte a meno che esso non ne sia stato la causa esclusiva. Adottando il criterio di separare i decessi da quelli da virus l’anomalia sparisce e l’impatto del virus si riduce di circa 10 volte.
Ma così facendo si incorre in un grave errore di sottovalutazione: l’attacco del virus a un paziente già debilitato da una o più patologie può essere l’elemento scatenante della crisi finale. È impossibile, in definitiva, isolare il suo specifico input in chi soffriva di più malattie. Non esiste quindi una soluzione clinica al problema della effettiva letalità del Covid. Ma esiste una soluzione di tipo statistico, che include anche le morti “nascoste”. Ho sottolineato che sarebbe occorso uno sforzo ad hoc dell’Istat, convincendola a fornire i dati della mortalità generale in tempo reale invece di farci attendere due anni. Pochi giorni fa l’Istat ha iniziato finalmente a pubblicare una prima tranche di dati sui deceduti tra il primo di gennaio e il 21 marzo di quest’anno mettendoli a confronto con quelli del 2015-19.
Cosa ne risulta?
Ne risulta una impennata della mortalità che inizia dalla fine di febbraio e prosegue in marzo. È una brusca inversione di tendenza, perché nei primi due mesi di quest’anno i decessi erano stati inferiori a quelli osservati nel 2019. Fin qui l’Istat.
Ma un’altra fonte di pari attendibilità, il network SiSMG che fa capo alla Regione Lazio, ci consente di fare un ulteriore passo avanti. Il network raccoglie i dati di mortalità in 19 città italiane e li pubblica rapidamente. Ne risulta un eccesso del 29% – pari a 15.300 morti a livello nazionale nello scorso mese di marzo.
Sono tante o sono poche 15.300 vittime? Sono poche solo per chi decide di ignorare il fatto che esse sono il pedaggio che abbiamo pagato al virus nonostante un intervento molto aggressivo di contrasto. I dati Istat e SiSMG danno inoltre solida conferma di un’altra caratteristica di fondo dell’epidemia italiana: la sua esasperata concentrazione territoriale. Nell’Italia del Nord si concentra quasi il 90% dei morti, e il 60% nella sola Lombardia. L’aumento nel Nord rispetto alla media quinquennale è del 47%, contro il solo 8% nel Centro-sud. A Roma e Palermo lo scarto di mortalità è quasi nullo (1 e 2%).
La scarsa incidenza della letalità del Covid al Sud si deve all’effetto congiunto della distanza geografica dai principali focolai dell’infezione e dell’orientamento Nord-Sud della penisola. La latitudine/temperatura indebolisce il virus.
È il caso Lombardia, allora, la vera anomalia italiana. Come ha fatto il virus a radicarsi così profondamente nella regione, e in contrasto così clamoroso con la situazione del Veneto, regione contigua, e simile alla Lombardia per struttura demo-economica? Qui i decessi dovuti al virus sono 7 volte inferiori a quelli della Lombardia.
Tra le varie spiegazioni, la più convincente può essere quella di un fatale errore di politica sanitaria commesso dalla Regione Lombardia fin dall’inizio della crisi. Si è ospedalizzata subito la maggioranza dei contagiati, e lo si è fatto ricoverandoli in edifici dotati di impianti di aerazione obsoleti. Questi si sono trasformati in centri di contagio intensivo sia del personale sanitario (strage di medici e infermieri) che dell’intera popolazione.
Il Veneto ha seguito la direzione opposta, non ricoverando se non i pazienti gravi e lasciando gli altri a casa o in presidi sanitari decentrati e di piccole dimensioni.