Scusate il cinismo, ma penso che gli insulti del Venerdì santo tra il Salvini-Meloni e Giuseppe Conte abbiano tolto di mezzo quell’equivoco di fondo – chiamato unità nazionale, solidarietà, condivisione o come preferite – mal sopportato dall’opposizione e dal governo.
Non certo perché collaborare tutti insieme per salvare il Paese dalla catastrofe del virus non fosse cosa buona e giusta. Al contrario, sarebbe stato encomiabile purché in un quadro politico animato dal rispetto reciproco, soprattutto sul piano personale. È sufficiente rileggere sul Fatto di ieri la grandinata di insulti che prima del Covid-19 i due leader sovranisti avevano rovesciato sull’odiato premier (“criminale”, “bugiardo”, “traditore”) per comprendere come quelle loro sfilate sotto Palazzo Chigi fossero una pura finzione, a uso delle tv. Peggio, una medicina da trangugiare con disgusto a giudicare dalle facce. Al termine di colloqui abbastanza inconcludenti e nei quali, al di là della cortesia formale, dalle due parti del tavolo non c’era molta voglia di concedere spazio all’avversario.
Al governo è convenuto ottenere la sospensione dell’ostruzionismo sui decreti in Parlamento, come richiesto dal presidente Mattarella. Mentre per la destra-destra restano scolpite le parole di Giorgia Meloni del 24 febbraio: “Conte non si illuda che questa emergenza possa salvare il governo. Non s’inventino scuse per tirare a campare”. Perciò, appare abbastanza superfluo chiedersi adesso se l’accusa rivolta dal Salvini-Meloni a Conte di “alto tradimento” sia stata un pizzico sopra le righe. E se il premier abbia fatto bene o male a rispondere per le rime. Invece di scandalizzarci per gli effetti (che modi signora mia!) cerchiamo di riflettere sulle cause che ne sono all’origine. Come il buon giornalismo consiglia.