Nel Paese delle poltrone, Alessandro Di Battista resta colui che due anni fa poteva diventare un importante ministro nel governo gialloverde ma preferì inseguire un sogno imbarcandosi, con moglie e figlio piccolo, per andare a raccontare gli ultimi della terra.
Anche per questo va ascoltato quando parla di nomine per lo meno inopportune (la conferma dell’indagato Claudio Descalzi al vertice dell’Eni). E se mette in guardia il governo Conte dalla trappola austerity, che dopo aver massacrato la Grecia e imposto regole soffocanti all’Europa più in difficoltà, Italia compresa, resta una bomba da disinnescare nel Mes, se pur modificato. Leggiamo che le sue uscite possono contribuire a frantumare un Movimento già di per sé diviso, come certificato a gennaio dalle dimissioni del capo politico Luigi Di Maio. E che dunque possono indebolire la struttura portante del governo di Giuseppe Conte, che Di Battista definisce un “galantuomo”, lasciando intendere che le buone intenzioni non bastano.
Se è vero che la politica va giudicata più che dalle categorie (del tutto soggettive) del bene e del male, dal nesso causa-effetto siamo convinti che a Di Battista non sfuggano le conseguenze di un’opposizione radicata nella maggioranza (non bastasse il tormento Matteo Renzi). Visto soprattutto l’assedio sempre più insistente e molesto dei “lor signori” (per dirla con Fortebraccio) che intendono sostituire il premier che si è sobbarcato il peso gigantesco della pandemia (sostenuto dal crescente favore dei cittadini) con miracolosi uomini della Provvidenza (ma anche con il primo che passa).
Di Battista continuerà a dire e a fare ciò che meglio crede, ci mancherebbe altro. Ma non dimentichi che in politica, come altrove, possono esservi conseguenze non intenzionali di azioni intenzionali. Si chiama eterogenesi dei fini.