Ho fatto il cronista politico per una vita, mai mi era capitato di assistere al linciaggio mediatico di un premier come quello a cui viene sottoposto Giuseppe Conte. Certo, con Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi fu un bombardamento quotidiano (diedi il mio fattivo contributo all’Espresso, all’Unità e poi al Fatto); ma, a parte l’incallita frequentazione del presidente-padrone di aule di tribunale e cene eleganti, egli poteva disporre di una contraerea tv-giornali dalla potenza di fuoco micidiale, che Conte si sogna. Si potrebbe aggiungere che all’avvocato pugliese è toccata in sorte una mezza apocalisse; ma, come dice lo spiccio Sallusti, di fare il presidente del Consiglio non gliel’ha mica ordinato il medico.
Personalmente, ringrazio ogni giorno il Padreterno che a guidare il Paese ci sia lui (e non, per dire, uno dei due agghiaccianti Matteo), ma sono anche disposto a considerare tutte le accuse che gli vengono rovesciate addosso: inetto, confusionario, vanesio, ridicolo, servo della Merkel, traditore della patria, dittatorello che fa strame della Costituzione, megalomane che conduce il Paese alla fame e alla rivolta sociale.
Purtuttavia, questa specie di immane pericolo pubblico continua a godere di un vasto consenso, secondo tutti i sondaggi, circostanza indubbiamente né assolutoria, né permanente (anche Hitler e Mussolini furono popolari assai, direbbe Sallusti). Cortocircuito che però ci aiuta spiegare l’ostilità di cui sopra.
Politicamente, si sa, Giuseppi è un figlio di nessuno, spuntato fuori quasi per caso dal caos 5Stelle (tra milioni di cazzate, una cosa giusta ci può stare, è un fatto statistico). E dunque non è stato generato per partenogenesi dal sistema radicato e strutturato di clan, logge, camarille, conventicole, consorterie, combriccole, amici degli amici, aumm aumm che da sempre distribuiscono i pass per accedere ai piani superiori. Andiamo a intuito, ma sospettiamo che se il nostro si fosse mostrato un tantino più disponibile alle istanze di certe note eminenze professorali, editoriali, emerite e maneggione avrebbe sicuramente goduto di una migliore stampa. Purtroppo il palazzo non è più quello di una volta (come ci scrive Alessandra Savini, grande amica del Fatto).
2. Però le svolte autoritarie bisogna anche saperle fare e, se uno invoca il generale De Gaulle, non può pensare di trovarlo con un annuncio su Repubblica. Una volta lessi di uno stadio argentino che dimostrava come il boato seguito ai gol di un celebrato puntero facesse vibrare i sismografi. Lo stesso vale per i nostri cospiratori alle vongole, che pensano di produrre un terremoto politico strillando tutti insieme: cacciate Conte! Che poi non si capisce chi e come dovrebbe assumersene la responsabilità. Il Quirinale? Magari con un drappello di Corazzieri spedito ad arrestare il premier abusivo? La presidente della Consulta, Marta Cartabia? Che tuttavia, Costituzione alla mano non sembra aver trovato il giusto appiglio per procedere all’impeachment del pericoloso eversore (come richiesto da Renzi, noto garante di quella Carta che cercò invano di distruggere). Facile invocare Mario Draghi al potere, e che poi se la veda lui. Il consueto metodo delle barricate con il mobilio degli altri.
E da quali immaginifici apporti dovrebbe scaturire la vagheggiata unità nazionale della ricostruzione? Nicola Zingaretti più Renzi, più Gianni Letta, Giancarlo Giorgetti e Luca Zaia, leggiamo nei retroscena più fichi. Con Salvini e Giorgia Meloni ad applaudire. E i 5Stelle affanculo. Ci sarebbe da ridere se la cacofonia non agisse da detonatore per reazioni più serie.
Delusi dal Papa che non segue i vescovi sulla imprudente riapertura delle chiese. Con i mercati che non danno retta al declassamento Fitch e non ci affondano come da alcuni patrioti ardentemente sperato. Con la Germania e la Francia costrette a imitarci sulla via della cautela e della gradualità, gli sfasciacarrozze dell’apocalisse (annidati negli show de profundis di Giletti, Porro, Giordano e Del Debbio) hanno costantemente l’orecchio poggiato sul selciato in attesa che da qualche luogo giungano finalmente i rumori dell’insurrezione e della rivolta. Intanto, dall’alto di contratti giornalistici e televisivi non disprezzabili, versano calde lacrime sul “Paese allo stremo”.
3. Che la gente non ce la faccia più, chi fa uso strumentale del disagio è il meno indicato a dirlo, ma è la verità: la gente non ce la fa più e ha paura del futuro. Non è questa la sede per un esame del “Cura Italia” e della necessità di provvedere quanto prima al salvataggio degli esercizi commerciali e delle piccole e piccolissime imprese attraverso forme efficaci di finanziamenti e sussidi da erogare nella forma più diretta e immediata. Perché a minacciare il governo Conte più che le grida renziane, e dei soliti mestatori prêt-à-porter sono due categorie: la pubblica amministrazione e le banche.
Riguardo alla prima, bene illustrata nelle sue eccellenze da Marco Travaglio, non sappiamo quanto si possa evitare che il percettore di un aiuto da parte dello Stato finisca per perdersi nella selva oscura e mai disboscata di leggi e codicilli. Quanto al sistema bancario (già tristemente noto ai risparmiatori di Etruria, banche venete e Popolare di Bari) temiamo che l’“atto d’amore” chiesto da Conte per sveltire pratiche e procedure non sia sufficiente. Quando poi lo vediamo incarnato nella figura non proprio amorevole di Antonio Patuelli, che era già presidente dell’Abi quando andavamo alle elementari, proviamo un sincero rimpianto per il generale De Gaulle.