Difficile non intervenire, anche se avrei preferito starne fuori. Perché – lo confesso – sono molto tormentato e diviso. Da una parte Nino Di Matteo, magistrato che stimo da sempre per il coraggio e la capacità professionale dimostrati in processi complessi, spesso di importanza che va ben oltre il perimetro del fascicolo per investire la tenuta stessa della nostra democrazia. Dall’altra, Alfonso Bonafede, del quale – come ministro della Giustizia – apprezzo varie iniziative (fra tante: la “spazzacorrotti”; la prescrizione finalmente interrotta; gli interventi sul versante antimafia, ultimo il coinvolgimento del Procuratore nazionale nelle decisioni riguardanti la scarcerazione di mafiosi, cosicché anche il profilo della pericolosità sia valutato bilanciandolo con gli altri).
Ovviamente, stima e apprezzamento non escludono che su specifici punti possano esserci nel reciproco rispetto opinioni divergenti. Per esempio, il proclama del ministro che ieri alcuni media hanno sintetizzato con lo slogan “rimando dentro tutti i boss finito il rischio Covid”, potrebbe impallarsi sull’autonomia della magistratura.
Tanto premesso, confesso che le reazioni scatenatesi dopo la trasmissione tv di Massimo Giletti di domenica scorsa, presto degenerate in una tremenda bagarre, appaiono per svariati profili anomale. Andiamo con ordine. Giletti raccoglie alcune opinioni che accennano a “trattative” (termine usato da alcuni ospiti in studio) per la nomina nel 2018 del capo del Dap. Giletti chiede al parlamentare europeo dei 5 Stelle Dino Giarrusso perché non fu scelto Di Matteo che sembrava quello più giusto.
Giarrusso risponde di non sapere nulla nel merito e aggiunge che “quelle erano trattative, contatti tra ministro e Di Matteo in cui io non c’entro”. Telefona Di Matteo e subito rivendica energicamente: “Non ho mai fatto trattative con nessun politico né ho mai chiesto nulla”. Segue la ricostruzione dei colloqui avuti con Bonafede nel 2018 circa la sua eventuale nomina a capo del Dap o dell’ufficio Affari penali. All’irruzione di Di Matteo segue a ruota quella del ministro Bonafede e si innesca – in una sede comunque impropria – un cortocircuito istituzionale (Di Matteo è attualmente componente del Csm).
La mia potrà sembrare una lettura minimizzante, ispirata a uno psicologismo d’accatto, ma penso che la molla, il fattore scatenante dell’intervento di Nino Di Matteo sia stata la parola “trattativa”. Non solo perché la sua esperienza professionale è legata al processo definito proprio come “trattativa”, ma soprattutto perché un magistrato come lui non può assolutamente tollerare che il suo nome sia accostato all’ipotesi di trattative con chicchessia, men che mai per attività d’ufficio.
Lo confermano alcuni passaggi delle due interviste che Di Matteo ha rilasciato ieri a Repubblica e a La Stampa, che al riguardo contengono alcuni passaggi piuttosto illuminanti. Cito alla rinfusa: domenica sera ho sentito fare il mio nome inserendolo in una presunta trattativa; sapevo e so che non devo chiedere niente; non sono uno che fa calcoli; i colloqui col ministro si sono svolti su suo invito e per sua iniziativa; non sono stato io a chiamarlo; non è mio costume chiedere niente ai politici; sono un soldato della Repubblica. E non è un caso che Bonafede – con la stringata risposta nel “question time” di ieri – abbia precisato che quelle con Di Matteo furono “normali interlocuzioni per formare una squadra”.
Dato atto a Di Matteo che l’idiosincrasia per ogni indebito intreccio fra la sua figura e la parola “trattativa” è comprensibile e giustificata; preso atto altresì (intervista a La Stampa) della sua esplicita dichiarazione: “Io non faccio illazioni. E non penso minimamente che il ministro Bonafede sia colluso con la mafia”; è troppo sperare che la violentissima querelle possa placarsi e concludersi?
Senza dubbio gioverebbe una chiara ammissione del ministro: vale a dire che, ferma restando la sua autonomia in scelte di quel livello, era e rimane criticabile la nomina a capo del Dap non di Di Matteo, ma di un magistrato con ben altre caratteristiche. Mentre Di Matteo dovrebbe convincersi che abbandonare il proprio cuore alla tristezza e alle recriminazioni non aiuta. Rischia anzi di lasciare macerie sul terreno dell’antimafia quando finiranno i rantoli di questa guerra.
Una guerra fra persone perbene (Di Matteo e Bonafede), ambedue ben consapevoli che ci si può dividere su tutto ma non nella lotta alla mafia. Che invece rischia proprio lacerazioni profonde nel surreale clima creato ad arte da chi fino a ieri considerava Di Matteo un laido giustizialista incompatibile con lo Stato di diritto: e oggi invece lo usa strumentalmente come uno splendente totem in funzione anti-Bonafede.