L’ultima scarcerazione è quella di una fimmina di mafia: Rosalia Di Trapani, 72 anni, 8 di condanna per estorsione aggravata e favoreggiamento. È tornata a Palermo, dove nel rione San Lorenzo una volta il padrone era suo marito: Salvatore Lo Piccolo, detto “il barone”, insieme al figlio Sandro voleva prendersi Cosa nostra dopo l’arresto di Bernardo Provenzano. Li hanno fermati alla vigilia di un’altra sanguinosa guerra di mafia. Dal 2007 i Lo Piccolo sono all’ergastolo, ma in questi giorni hanno esultato per la scarcerazione di Rosalia, moglie e madre di mafia, che è tra i detenuti finiti ai domiciliari grazie all’emergenza coronavirus. Sui tavoli delle Procure c’è una lista di oltre 370 nomi: sono i carcerati usciti durante l’epidemia, che adesso il ministro Alfonso Bonafede vorrebbe riportare in cella con un decreto legge.
Quella del Guardasigilli è una reazione per provare a normalizzare una situazione incandescente. L’altro virus, quello della mafie, ha approfittato dell’esplosione dell’epidemia per tornare in circolo. Fuori dalle carceri gli inquirenti fanno notare come Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra non sono mai state tanto presenti nelle borgate ridotte alla fame dalla crisi. Quartieri dove nel frattempo le pattuglie di polizia e carabinieri passano più volte a controllare che i boss ai domiciliari siano regolarmente a casa. Quasi nessuno dovrebbe darsi alla latitanza, anche perché si tratta spesso di uomini anziani e malati. O almeno questa è la speranza degli inquirenti, chiamati a fare gli straordinari in un momento di fibrillazione.
“Ci manca solo che scappi qualche pezzo da novanta”, dice un investigatore. A tornare liberi di recente, infatti, sono stati pure tre detenuti al 41-bis, che per alcuni giudici di Sorveglianza è talmente impermeabile da proteggere pure dal contagio. Per altri magistrati, però, neanche il carcere duro difende dall’epidemia. Tra i primi ci sono quelli che hanno negato i domiciliari al superboss Nitto Santapaola. Tra i secondi quelli che hanno concesso la scarcerazione a Francesco Bonura, uno dei colonnelli di Provenzano: è stato il primo scarcerato eccellente in due mesi di emergenza. Da due settimane ha lasciato il 41-bis per tornare pure a lui a Palermo, dove guidava Cosa nostra insieme a Nino Rotolo e Antonino Cinà: era contro di loro che i Lo Piccolo erano pronti a scatenare la mattanza. È uscito dal carcere duro pure Pasquale Zagaria, la mente economica dei Casalesi: ha avuto un tumore, non può curarsi in carcere – anche perché il Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap) non ha risposto in tempo ai giudici che chiedevano penitenziari attrezzati per le terapie – e per evitare che si ammalasse di coronavirus il tribunale di Sassari lo ha spedito ai domiciliari in provincia di Brescia, epicentro nazionale del contagio.
Il resto dei detenuti scarcerati, invece, era recluso soprattutto nei reparti di Alta sicurezza, quelli che ospitano i gregari dei clan e i killer delle cosche. Sono le stesse sezioni che non hanno fatto registrare troppi disordini durante le rivolte di marzo. A protestare contro il rischio contagio nelle celle sono stati soprattutto i detenuti comuni, “quelli delle terze brande” come li chiamano in gergo gli uomini della polizia penitenziaria. Nei letti a castello dormono più in alto perché contano meno. I capi, invece, no: loro stavano fermi e tranquilli. Un elemento che, sommato alla contemporaneità delle ribellioni – 22 penitenziari esplosi quasi nelle stesse ore tra il 7 e il 9 marzo – ha rafforzato negli inquirenti un sospetto: quelle rivolte erano coordinate da un’unica regia criminale. L’obiettivo era sfruttare l’emergenza per ottenere qualche beneficio. Anche per questo motivo i provvedimenti varati dal governo escludevano i condannati per mafia dalla possibilità dei domiciliari.
Ad agevolare la scarcerazione degli uomini dei clan, però, è arrivata la circolare del Dap. Inviata il 21 marzo, di sabato, firmata dalla dirigente delle relazioni esterne per conto del direttore generale, quella nota chiedeva alle case circondariali di stilare la lista dei detenuti più esposti al virus, cioè i malati con più di 70 anni. Sarebbe poi toccato ai giudici decidere chi liberare. In questo modo è tornato a casa anche Franco Cataldo, 85 anni, all’ergastolo per essere stato tra i carcerieri del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito e sciolto nell’acido. E poi Giacomo Teresi di Brancaccio, padrone della macelleria dove i mafiosi progettavano di uccidere Gian Carlo Caselli. Nel quartiere dei Graviano è tornato pure Antonino Sacco, tra i reggenti del clan dei fratelli delle stragi. E poi ancora Antonino Sudato, killer del clan di Siracusa. Hanno tutti una relazione sanitaria che indica la presenza di alcune patologie e il diritto alla salute. I nomi sulla cartella clinica, invece, raccontano storie terribili di sangue e violenza.