“È una malattia che non auguri al peggior nemico, ma…”. Già, c’è quel ‘ma’. Ascolti Lorena Scaperrotta che racconta la battaglia con il tumore, ma alla fine raccogliendo gli appunti trovi soprattutto il marito Giuseppe che si era “tagliato i capelli a zero per me quando facevo la chemio”. Trovi il professor Riccardo Masetti “che non ha lottato per noi, ma con noi”. Trovi persone che oltre al ‘brutto male’, come si diceva una volta, hanno combattuto insieme il più grande nemico di ogni malato: la solitudine.
Partiamo da quel giorno, “il 2 gennaio 2017”, perché questa donna con gli occhi vivi e lucidi ricorda ogni data, ogni ora. Lorena, classe 1978, era felice: due figli, un matrimonio, un lavoro come economista nel centro studi di Confindustria a Roma. “Ero sotto la doccia, ho sentito quella pallina vicino al seno”. Il ginecologo capisce che non c’è tempo da perdere: “Facciamo subito gli esami, bisogna aspettare il ciclo, però”. Già, ma non arriva. “Ero incinta”. Un bambino e il tumore. I medici non lasciano alternative: se ti curi, devi rinunciare al figlio. “Fosse stato per me non mi sarei curata. Ma avevo due figli, lo dovevo a loro”. Mancano solo due giorni quando Lorena tenta un’ultima carta: “Ho scritto una mail a Masetti del Gemelli di Roma. E dopo poche ore mi è arrivata una telefonata: venga domani”. Dodici ore prima dell’addio al bambino, ma il professore ci crede: “Possiamo fare la chemio e salvare lei e suo figlio”.
È il 14 febbraio, quello che poteva essere l’epilogo della storia, invece è l’inizio: l’operazione, la chemio, mentre la pancia cresce. Lorena non parla della malattia, ma delle persone che aveva intorno. Di Giuseppe, il marito conosciuto da ragazzi, questo poliziotto che riesce a scherzare anche nei momenti più duri: “Sembri un’araba”, dice quando lei si presenta con un turbante per coprire la testa senza capelli. Giuseppe che mentre la chemio scivola nelle vene gioca con Lorena a fare canestro con le palline di carta. Riescono perfino a dirlo ai figli, ‘la chemio chic’ la chiamano: “Ogni volta mi truccavo e mi mettevo i tacchi, perché senza capelli non ti restano molti modi per farti bella”. E poi c’è il professore che li accompagna: “Nei momenti difficili mi mandava un messaggino, capiva quando ne avevo bisogno”.
Ci siamo quasi, mancano due mesi, ma ci si mettono di mezzo una polmonite, la terapia intensiva, le lastre. Il bambino, però, è lì, resiste. Lorena è dimessa, ma il giorno dopo lui decide di nascere: Riccardo. Non poteva chiamarsi altrimenti, come il professore che aspettava davanti alla sala parto. Oggi mentre parli con Lorena senti sullo sfondo la voce di un bambino di due anni: “Fammi fare lo scivolo”. Se provi a chiederle quale sia stato il segreto, Lorena parla del Dio che l’accompagna dall’infanzia, del marito che le era accanto a ogni seduta. E di quel professore amico al quale dà del tu. Riccardino ce l’ha fatta. Sua mamma oggi si cura con gli ormoni. Le visite di controllo – “un’angoscia ogni volta…” – sono meno frequenti. Le statistiche danno molta speranza. Ma ha già vinto la battaglia più dura: non è mai stata sola.