Forse la pandemia è finita ma non ci sarà alcun senso di resurrezione. Abbiamo patito molto (più di tutto per il senso di vuoto e la mancanza di guida), siamo rimasti fermi (per necessità ma anche non sapendo dove andare), non abbiamo fatto progetti (come accade persino ai prigionieri, che in detenzione si immaginano continuamente nuovi luoghi e nuove vite) e – tranne che il tentativo a ogni costo di essere esentati, per paura della terapia – non abbiamo neppure espresso desideri come nelle fiabe. Abbiamo solo aspettato, i più di noi con disciplina.
Forse la pandemia non è finita (o resta talmente vicina, talmente in agguato da tenerti sempre con il cuore in gola) e non ti resta che rinforzare l’obbedienza agli ordini: mascherina, guanti, disinfettanti e distanze. Sono pratiche claustrofobiche ma danno un senso o una apparenza di protezione. Non un solo leader e non un solo medico sono in grado o hanno voglia di indurti a propendere per una via d’uscita o per l’altra. Una prova del vuoto in cui siamo sospesi ce la danno coloro che si sono dati il lodevole compito di rasserenarci. Scrivono testi su mondi che saranno migliori, in cui noi saremo i fortunati protagonisti, dopo la prova superata.
Nella loro e nella nostra immaginazione manca il percorso. Come si arriva a questo mondo nuovo e pulito dove saremo di muovo felici o, almeno, adatti alla felicità? Se qualcuno lo sa non lo dice per non toglierci il gusto della conquista. Ma è più probabile che tutti tacciano per essere sicuri di non perdere il segnale di ripresa (ricominciare, ripartire, sono le parole) quando verrà. Una cosa è certa, ed è nuova: soffriamo di una malattia che colpisce indifferentemente le persone e le imprese, il pensiero e il lavoro, la poesia e la falegnameria, l’immaginazione e la realtà. Per dirla tutta, sono due malattie.
Una rientra nei canoni delle terapie mediche (anche se non esiste una cura). L’altra è una crisi economica che piove sul lavoro come “l’Agente Orange” pioveva sulle foreste del Vietnam, lasciando soltanto rami secchi. Ottimi economisti possono trovare la cura per il male aziendale, e la scienza medica potrà giungere a trovare la risposta clinica. Ma perché intervengano i medici bisogna fermare i manager. E perché i manager portino ai risultati necessari bisogna sgomberare i medici e le loro prescrizioni dalla scena. O si salvano tutti e non lavorano. O lavorano tutti e non si salvano. Se allarghiamo la scena vediamo qualcosa di più, anche se non è detto che capiremo qualcosa di più.
Esempio. Da che esiste il potere, due classi distinte fronteggiano la guerra: una parte comanda, una parte combatte. Anche questa volta accade così, ma solo per la parte manageriale della malattia: restare in fabbrica, lavorare, produrre, mantenere i livelli previsti e remunerativi, e per la salute speriamo in bene. Per la parte “destino” (non il lavoro, la malattia) il coronavirus decide da solo e, se capita al momento giusto, si porta via il leader britannico del governo che, (si vede anche adesso, nei suoi radi discorsi), ha risentito molto dell’esperienza della malattia, che aveva appena definito una esperienza naturale del “gregge” di cui si illudeva di non essere parte. Dunque c’è dell’altro: c’è la scoperta romantica e un po’ bizzarra di un destino comune. Questo potrebbe spiegare un fatto nuovo: l’umore disorientato, contraddittorio ed esausto che sta diventando tipico di molti leader, fra i più importanti del mondo. Per oltre una settimana, nella rigidissima Corea del Nord, si erano perse le tracce del “caro leader”. Il Trump americano, in piena campagna elettorale, lo abbiamo incontrato senza idee, senza insulti, senza presunzioni e in continua contraddizione (“aprire tutto, chiudere tutto”) con se stesso. Ma non nel suo stile rabbioso o di disprezzo. Piuttosto di vera incertezza.
L’Europa resta priva di progetti ma anche priva della sicurezza di poter dettare le regole. Putin, che pure è una figura dittatoriale, improvvisamente appare modesto, come spaventato, senza che sia possibile dire da che cosa. Il sovranismo si sfoga nella violenza verbale gratuita (si vedano gli insulti a Silvia Romano-Aisha, la ragazza italiana-ostaggio appena liberata) ma non conosce strade né iniziative per districarsi dalla confusione di tutti. Ecco, forse, il dato comune di culture politiche e di regimi diversi e opposti è nella sfinita debolezza che quasi tutti i governi stanno dimostrando in questo strano periodo della storia del mondo. Ma c’entra la pandemia in questa sindrome diffusa della irresponsabilità o negazione o estrema debolezza di chi dovrebbe reggere o sorreggere gli altri (cittadini o prossimo)? Il Papa che gira da solo nelle piazze, nelle strade, nelle cattedrali deserte di Roma ci sta dicendo qualcosa. Forse l’avvertimento fraterno è che, anche in caso di “guarigione”, non stiamo tornando nel prima.