All’alba del suo cinquantesimo anniversario, lo Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici si presenta come uno strumento menomato, lacerato dalla bulimia di riforme che si sono succedute a partire dalla fine degli anni Novanta fino ai giorni nostri. Istituzionalizzazione delle rivendicazioni politiche e sociali che avevano caratterizzato il decennio precedere, la manomissione dello Statuto altro non è che la formalizzazione nero su bianco di quella controrivoluzione neoliberale iniziata a metà degli anni Settanta e sfociata in Italia nella gestione della crisi del bienio 1992-1993.
La realtà dei fatti mostra inequivocabilmente che tutti i presupposti teorici e ideologici a fondamento dello smantellamento dello Statuto hanno fallito. Abbassando diritti e salari non si crea più occupazione, la produttività né tantomeno la competitività dell’economia non aumentano lasciando libere le imprese di disporre a proprio piacimento della forza lavoro. La precarietà non è uno stato passeggero ma un circolo vizioso da cui non è possibile sottrarsi invocando ulteriori retoriche come quella del merito individuale.
Oggi in Italia, il 14% di lavoratori erano a rischio povertà già prima della crisi del covid-19, il part-time involontario, usato dalle imprese come forma di riduzione dell’orario di lavoro e dei salari, ha raggiunto il 67% dei lavoratori a tempo parziale, il doppio rispetto alla media europea, le discriminazioni di genere e di età costringono ampie fasce della popolazione a cedere a ricatti sempre più violenti. Inoltre, l’adozione di nuove tecnologie nei processi produttivi, raramente identificabili con l’automazione che espelle lavoratori, è una scelta unilaterale senza voce in capitolo per chi quella tecnologia la subisce, i lavoratori.
Pensare il futuro significa allora decidere in che modo restituire sicurezza sociale e libertà nel e dal lavoro, significa rimettere al centro obiettivi democratici. Lo Statuto del lavoro di domani, quello da costruire oggi, non può esimersi dall’adottare un principio di base: nessun lavoratore può essere povero, indipendentemente dall’età, dal genere, dalla nazionalità, dal tipo di contratto e regime orario. Da qui, l’esigenza di introdurre un salario minimo legale, come soglia sotto la quale nessun lavoratore può essere retribuito, complementare alla contrattazione collettiva nazionale, così come già avviene in molti altri Paesi europei e non. Contrariamente a quanto viene spesso sostenuto, a minare l’efficacia della contrattazione nazionale non è il salario minimo, bensì la centralità della contrattazione di secondo livello che sbilancia e individualizza i rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro; la stessa che aumenta le diseguaglianze e la frantumazione tra lavoratori, anche della stessa azienda.
Allo stesso tempo metodi come l’appalto di manodopera e il lavoro a cottimo vanno aboliti dal nostro ordinamento. Basti pensare che già quando fu approvato lo Statuto erano già stati fortemente disciplinati o aboliti grazie a leggi come la 369/1960, conquiste di civiltà di lunghe lotte sindacali. Tuttavia, il tema delle esternalizzazioni, anche quando non rasenta il caporalato, ha bisogno di maggiori rigidità e una inderogabile responsabilità da parte del committente che deve rispondere insieme all’appaltatore delle condizioni di lavoro, delle retribuzioni e dei contributi sociali che spesso vengono evasi.
Bisognerà bandire tutte le forme di lavoro gratuito o di lavoro non riconosciuto come stage e tirocini, ad inizio durante e a fine carriera lavorativa. Altrettanto indispensabile è rendere operativi i principi costituzionali per cui ogni lavoratore ha diritto alle ferie, alla malattia, alla maternità: tutte cose che i datori di lavoro devono garantire a prescindere dal tipo di contratto.
Non ci può inoltre essere né libertà né democrazia senza conoscenza. Per questo, la conquista delle 150 ore di formazione svincolata dagli interessi e bisogni aziendali va rafforzata e resa obbligatoria, affinché la cultura e il sapere tornino ad essere elementi fondanti della nostra società. Strumenti senza i quali la democrazia economica e l’urgenza di introdurre meccanismi di controllo da parte dei lavoratori sulle scelte aziendali sarebbero impossibili. La conoscenza è uno strumento fondamentale per la democratizzazione dell’organizzazione del lavoro, di cui sempre più fa parte l’uso di nuovi dispositivi tecnologici (app, software ecc). L’adozione delle nuove tecnologie non è mai imparziale rispetto ai processi di accumulazione e sfruttamento.
La nostra società non può più permettersi discriminazioni di alcun tipo, a partire da quelle di genere. Tra i molti strumenti necessari a tale scopo, una misura di civiltà è ad esempio l’introduzione per legge del congedo obbligatorio per entrambi i genitori per i primi tre mesi di vita del neonato.
Uno Statuto dei lavoratori e delle lavoratrici all’altezza delle sfide del futuro deve saper immaginare che un manager non può guadagnare più di tre volte quello che guadagna un operaio. Si dirà che è una pazzia! Che non è mai esistita una legge del genere. A chi contesta si dirà che è arrivato il momento per farla.
Tuttavia, un progetto di ricostruzione sociale e politica non può fare a meno delle grandi spinte che, nei secoli e decenni passati, hanno reso tali trasformazioni realizzabili. Sono le grandi mobilitazioni di massa, attorno alle quali il popolo dell’abisso si è unito e risollevato.
Il progresso sociale ha bisogno di stabilità e di sicurezza, così come democrazia e uguaglianza necessitano di rigidità per essere strumenti di libertà.