Colto sul Fatto! Fino a venerdì scorso l’idea di scrivere su questo giornale mi appariva remota. Ma certe decisioni si prendono in fretta, dall’una e dall’altra parte, di fronte all’evidenza di uno scenario che cambia nell’offerta di quel bene prezioso che è l’informazione. E allora, benché sussistano divergenze profonde su politica giudiziaria, carceri, immigrazione, ringrazio dell’invito ricevuto dopo le mie dimissioni da Repubblica e provo a motivare quella che considero una scelta obbligata. Ma assai stimolante.
Comincerei dalla differenza che passa fra una monarchia costituzionale e una monarchia assoluta. Prendete Exor, la holding della famiglia Agnelli: nel 2015, pur diventando principale azionista dell’Economist (43%), ha accettato di non esercitare il suo peso per oltre il 20% del capitale; di essere rappresentata da un numero minoritario di membri nel consiglio d’amministrazione; e soprattutto di subordinare la nomina del direttore all’approvazione di un trustee, cioè di un comitato di garanti. Monarchia costituzionale in versione anglosassone, appunto.
Un economista spiritoso, Salvatore Bragantini, a suo tempo auspicò su lavoce.info che Exor importasse lo stile inglese nei giornali acquisiti in Italia. La risposta è giunta il 23 aprile scorso col licenziamento senza preavviso di Carlo Verdelli, allorquando Exor assumeva la gestione operativa di Repubblica. Non m’interessa anticipare giudizi frettolosi sul suo successore e sul perché è stato scelto: suppongo l’editore sia soddisfatto dei risultati conseguiti da Maurizio Molinari alla Stampa, il quotidiano da lui precedentemente diretto. Diciamo che la meritocrazia è da sempre un criterio piuttosto elastico. Papa Francesco, in un discorso ai lavoratori dell’Ilva di Genova, giunse a dire che “il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà veste morale alle disuguaglianze”. Mi accontento per ora di constatare che il capitalismo è per sua natura apolide, ma adatta i suoi parametri di governance ai diversi contesti in cui opera: qui da noi Exor ha optato per la monarchia assoluta.
Il discorso non sarebbe completo se non citassi anche i venditori di quello che fu il Gruppo L’Espresso (mi piace chiamarlo ancora così, entrai nella redazione di quel settimanale nel lontano 1983), cioè la famiglia De Benedetti. L’amicizia cui mi sento legato non impedisce di constatare come essa abbia scelto di rinunciare a sentirsi parte della classe dirigente italiana, in un momento difficile per questo Paese. Si è chiamata fuori. Faccio molti auguri a Carlo, nella speranza che riesca a difendere Domani quel che non è riuscito a difendere ieri, da proprietario.
Per oltre quarant’anni Repubblica ha rappresentato il luogo d’incontro fra l’establishment e il popolo della sinistra. Un equilibrio, di cui va riconosciuto il merito all’intuizione geniale di Eugenio Scalfari, che oggi la situazione rende più difficile. Non rinnego certo i leali rapporti intrattenuti con gli azionisti dei giornali in cui ho lavorato – gli Agnelli e i De Benedetti, senza dimenticare la Telecom con cui partecipai alla fondazione di La7 – senza dover rinnegare le mie idee e i miei legami esistenziali con la sinistra. Tra parentesi, sappiano i denigratori che il Rolex d’acciaio ero già riuscito a comprarmelo prima, nel 1992, quando stavo nella Rai3 di Guglielmi.
Proprio su questo giornale, poco più di un anno fa, mi sono preso la briga di fare i conti con l’ansia di legittimazione che sospinse la sinistra, chiamata per la prima volta al governo del Paese, a instaurare rapporti subalterni con il capitalismo italiano, sottovalutandone i vizi. L’effetto indesiderato fu la rinuncia a tutelare efficacemente gli interessi delle classi subalterne. Oggi, nella recessione provocata dalla pandemia del Covid-19, il tema sta riproponendosi drammaticamente. Anche all’interno del Pd. Basti pensare alle oscillazioni sul prestito agevolato a Fca e sulla concessione di Atlantia.
Detesto la retorica della schiena dritta rivendicata a sproposito da chi fa il mio mestiere. Sto vivendo con Laura Gnocchi e con l’Anpi l’esperienza di centinaia di interviste alle partigiane e ai partigiani d’Italia. Ogni volta che uno di loro ci racconta la sua scelta temeraria, vengo chiamato a ridimensionare il prezzo tutto sommato modico della nostra libertà professionale.
Non occorre essere né rivoluzionari né anticapitalisti per rendersi conto che alla ricostruzione del Paese non basterà solo l’erogazione di risorse pubbliche. Serviranno soluzioni inedite, dal mutualismo a un ruolo di garanzia dello Stato e dei lavoratori nella proprietà delle imprese in difficoltà, da nuove politiche fiscali a forme di condivisione degli utili. Anche per questo sarò contento di lavorare in un giornale senza padroni.