Solo una postilla agli ottimi articoli scritti da Massimo Fini e Pino Corrias in ricordo di Walter Tobagi e del suo assassino Marco Barbone. Se non ci diamo ancora pace, quarant’anni dopo, è perché la ferocia della violenza politica che imperversava allora nella nostra società è tuttora difficile da spiegare a chi ce ne chiede conto.
Da quel delitto mi sentii colpito due volte. Con Walter Tobagi eravamo diventati amici quando lui aveva cominciato a frequentare la redazione di Lotta Continua, incuriosito dalla battaglia culturale da noi intrapresa contro il “partito armato” e l’ammirazione che esso continuava a riscuotere in sparute minoranze. Quanto a Marco Barbone, da ginnasiale partecipava alle riunioni del collettivo del liceo Berchet di cui ero fra gli animatori insieme ai suoi fratelli maggiori. Era un ragazzino che giocava a fare il duro, le discussioni politiche non sembravano appassionarlo.
La vittima e l’assassino appartenevano a generazioni diverse ma in fondo provenivano dallo stesso ambiente: borghesia progressista milanese. Walter Tobagi si era esposto, come firma del Corriere della Sera, nella ricerca di quali fossero le ragioni sociali, storiche e culturali di una stagione del terrorismo che ormai volgeva al termine.
Marco Barbone si aggirava fuori tempo massimo in un ambiente in via di disfacimento dove il fanatismo soverchiava qualsivoglia analisi politica, riducendosi al culto delle armi e alla ricerca di bersagli da abbattere. La lotta di classe non c’entrava più niente, in quella Milano avvelenata.
Troppo facile addebitare colpe che non hanno alla bellissima famiglia Barbone o a quella del suo complice Paolo Morandini, il cui padre fu un ottimo critico cinematografico. Chi s’accontenta di indicare un nesso causale fra la cultura democratica di quelle famiglie e il sangue versato dai loro figli, non ci aiuta a venirne a capo.