Che bello potere parlare dei diritti dei detenuti sapendo che non ci sono dietro le pretese di impunità dei boss e dei loro avvocati. Che bello quando il dibattito si libera dell’unica ragione per cui in questo Paese si discute di garantismo e condizioni carcerarie: la voglia dei mafiosi di tornare a casa e riprendersi, fra tante oche giulive, il quartier generale da cui comandare. Ecco, martedì 26 maggio è partito dal carcere di Bollate un piano straordinario. Che ha messo insieme Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e alcune industrie private in nome di un progetto detto “Lavori di pubblica utilità”.
Obiettivo: garantire alla collettività nazionale, grazie al lavoro dei detenuti, una fornitura di 800mila mascherine al giorno. Una cifra altissima, se solo si pensa a quanto il Paese ha pagato in vite umane l’assenza di adeguati dispositivi di protezione. L’intervento delle imprese ha permesso di mettere a punto in una settimana la costituzione di tre strutture produttive: le sedi penitenziarie di Milano Bollate, di Roma Rebibbia-Sadav e di Salerno.
Vincenzo Lo Cascio, responsabile dell’Ufficio centrale lavoro detenuti, entusiasmo e lampi di sguardo che ricordano il miglior Verdone, è quasi commosso per il clima che si è formato negli ultimi giorni. Un imprenditore coinvolto nella sfida, che non si era mai occupato di carceri, gli ha confessato che “l’idea che io possa essere il veicolo per cambiare in meglio la vita di un’altra persona mi fa sentire vivo come non mi era mai successo”. L’obiettivo più urgente è contrastare la diffusione del Covid nelle carceri. Ma le cifre assolute sono tanto ossigeno per il fabbisogno nazionale.
In tempi record sono state progettate le aree in cui verranno ospitate le linee produttive, completamente al di fuori da quelle di detenzione anche se all’interno del complesso di sicurezza, per permettere ingresso e uscita degli addetti e il movimento dei mezzi di trasporto coinvolti nella filiera. Saranno usati macchinari tecnologicamente avanzati di provenienza cinese, presi dalla struttura del Commissario straordinario e dati gratuitamente all’Amministrazione penitenziaria. Che sforneranno mascherine dotate delle certificazioni di conformità e degli standard qualitativi previsti.
Le cifre di questa nuova occupazione sociale? Sono calcolati sull’intero ciclo produttivo 162 detenuti, per ognuno dei quali è previsto un periodo di formazione. Le macchine lavoreranno 24 ore al giorno. Mentre la polizia penitenziaria assicurerà, anche in remoto, la sorveglianza delle aree interessate. “Tutte mascherine chirurgiche certificate, al costo di 60 centesimi l’una”, ci tiene a sottolineare Lo Cascio, “con risparmi miliardari per le casse dello stato ed evitando le maxitruffe che hanno infestato le scorse settimane”.
Ecco finalmente a voi, insomma, la funzione rieducativa della pena. Che è teatro, è giardinaggio, è lavoro utile, è servizio pubblico, è studio. Non è arresti domiciliari in barba alla legge e non è falsa perizia medica come hanno voluto far credere i difensori “dei diritti umani” o gli intellettuali da pronto soccorso giunti a giurare che “certa antimafia estremista fa più male della mafia” (complimenti, professore!).
E sempre a proposito di funzione rieducativa, proprio martedì scorso a Bollate, mentre arrivavano le prime due macchine, è stata annunciata la riapertura del ristorante “In galera”, del cui esordio Il Fatto parlò diversi anni fa. La sua fondatrice, Silvia Polleri, che aveva temuto che il Covid le mandasse in malora una fatica esemplare di anni, era raggiante: “Incomincia la rinascita!”. Darà e insegnerà un lavoro anche lei a una dozzina di detenuti. Che diventeranno cuochi e camerieri. E anche se non sono dei boss ma dei poveri diavoli, a noi interessa lo stesso. Anzi, di più.