Come un treno. Senti il suono che arriva in lontananza. Si ferma a ogni fermata. E tu continui a fare le tue cose. Piano piano il rumore si fa forte. Inizi ad accorgerti delle immagini al telegiornale. E intanto, quello, si avvicina sempre più. Poi è un secondo. Il treno arriva, ti trancia le gambe. Tu lo vedi passarti sopra: oramai agonizzante. Non è più solo in Cina, ora. Il virus è dietro, dentro casa tua. E ti porta via tuo padre. Tua madre. In dei casi, entrambi. Luca Fusco, commercialista 58enne di Brusaporto, in provincia di Bergamo, ha perso il padre, Antonio, 85 anni, che fino a tre mesi fa ogni giorno passava in studio a vedere se “con le pratiche tutto bene”.
“Non so nemmeno se quelle ceneri che mi hanno restituito siano le sue… per due volte sono state perse”, racconta. “Cuneo, Ferrara, non si sapeva in che città l’avessero portato. Quelli delle pompe funebri si ammalavano uno dopo l’altro, e mio padre si perdeva. È successo tutto così. Ma c’è un punto in cui quella velocità, e la sospensione che dall’altra parte tutto il Paese viveva, si sono incontrate”. È stato suo figlio a creare il gruppo Facebook. “Papà, io te lo faccio, ma guarda che sarà un casino stargli dietro, sai in quanti scriveranno?”. Solo che Luca davvero non riusciva ad immaginare. Con la sua compagna decidono il nome: Noi denunceremo. “L’idea era nata in cucina, una sera. Per condividere, innanzitutto. Non ce n’è un bergamasco che non abbia un parente o amico morto”. In meno di 24 ore gli iscritti diventano migliaia: oggi, oltre 55mila. E da tutt’Italia. Così “Noi denunceremo” è diventato un comitato, e un sito con migliaia di storie. Tutte con lo stesso canovaccio. Abbandono dei malati, e dei familiari (senza tampone). Nessun contatto dalle Ats. Mancanza di assistenza domiciliare. Difficoltà di ricovero per i casi gravi. Pronto soccorso di Alzano. E quei “sacchi neri dell’immondizia”, in cui vengono raccolte le ultime cose delle persone che non ci sono più.
“Ancora oggi – prosegue Luca – mi rendo conto, quando sento gli amici di Milano che si lamentano per le chiusure, che chi non vive qui non può capire. Siamo stati sacrificati. Per interessi altri. Per incapacità. Per errori”. Qui, in queste valli di “lavoratori a testa bassa, proprio come piacciono a loro”, le serrande sono quasi tutte abbassate. Ed è il silenzio che ti accompagna per strada. Ma non perché le persone siano chiuse per le ultime ore di lockdown. Perché proprio non ci sono più. Morte. E prima la bacheca Facebook, poi il sito, hanno raccolto, attraverso le testimonianze dei familiari, le loro storie.
Non s’allude mai alla possibilità di contrarlo o meno, il Covid-19. Il punto, a leggere quei ricordi, era soltanto capire quando. Ora, scritte nere su bianco, quelle centinaia di storie sono diventate esposti, che verranno presentati davanti alla Procura di Bergamo il 10 giugno. “Sarà il nostro D-Day, il nostro Denuncia-Day”, spiega Consuelo Locati, anche lei rimasta orfana di padre, che coordina il team di avvocati. “Saremo tutti in fila. Ordinati, distanziati. Ma persone, non numeri: e vogliamo che si veda anche con un’immagine”. Ogni denuncia si porterà dietro il familiare che l’ha presentata. L’idea è nata, dopo essere stati chiamati più volte in Procura in via informale, “per aiutare i magistrati a fare chiarezza”. Le storie sono state raccolte e divise in tre filoni: ospedali, Rsa e “nessun tampone”. Poi, è scattato il progetto di una vera e propria azione legale, in sede penale e in sede civile. “Non possiamo puntare a una class action perché per il momento nel nostro ordinamento è prevista solo per tutelare i diritti dei consumatori. Ma – riprende a spiegare Consuelo – se dovessimo fare un buco nell’acqua, perché nel penale sarà molto difficile arrivare a un’incriminazione per epidemia colposa o per omicidio colposo, ci rivolgeremo al giudizio civile. E chiameremo a rispondere le autorità, per non aver ottemperato agli obblighi di responsabilità civile secondo l’ex articolo 2043 del Codice. E se nemmeno così otterremo giustizia, dopo il secondo grado andremo alla Corte di Strasburgo, per violazione dell’articolo 32 della Costituzione”. “Parliamo di decine di migliaia di morti”. Ora è Luca a parlare, la mente del Comitato. Siamo seduti a un tavolo all’aperto di un’osteria di passaggio: è la loro prima uscita dal lockdown. “Non si possono nascondere tutte quelle persone, cancellarle. Ci sono responsabilità di gestione nelle strutture – a livello comunale, regionale e centrale – che vanno chiarite. Non ne facciamo una questione politica di questo o quello schieramento, motivo per cui i giornalisti ci hanno chiesto subito se fossimo dei 5Stelle. Si figuri che io sono di destra, quelli della Lega li ho frequentati da vicino per tanto tempo. Ma qualcosa, quando il virus ha cominciato a diffondersi qui, nella Bergamasca, non ha funzionato. Altro che tsunami. La situazione è sfuggita di mano. E laVal Seriana non è stata chiusa, come chiesto dai sindaci della zona. Il resto, purtroppo, è noto”.
Marina Verzelletti
Mia mamma è caduta in casa il 15 marzo. Da li è iniziato un calvario, verso il più vicino ospedale. La dimettono, dopo averla medicata. Mi dicono: “Lei è fortunata, sua madre non ha il coronavirus.” Gli avevano fatto esami del sangue, una tac polmonare e il tampone. Che però non aveva esito. Mia mamma peggiora. Non era più lei. Ci telefonano dall’ospedale: la mamma era risultata positiva. Tre giorni dopo. Ho chiesto se noi dovevamo stare in quarantena e mi ha detto che non dovevamo fare nulla. La sera, ho guardato il certificato che mi aveva dato. Era retrodatato di due giorni. Era come se io avessi saputo che al momento delle dimissioni era positiva. L’impresa porta mia mamma insieme a un sacchettino della spazzatura nero. Dentro avrei dovuto trovare i suoi effetti personali. Invece c’erano quelli di un’altra persona.
Ezio Limonta
Il 13 febbraio ti ho accompagnato, contro la tua volontà, al pronto soccorso di Alzano, per problemi di calcolosi. Da qualche giorno tossivi. Giovedì 20 la tua tosse peggiora: “Bronchite”, disse il medico. Notai che nella camera di fronte, c’era un signore conuno strano cilindro in testa pieno di tubi (un respiratore). Sabato 22 febbraio alle 8.00 notai che il personale portava la mascherina. Che notte ho passato, tu che continuamente tossivi e mi dicevi che avevi la gola arsa e non riuscivi a respirare. Le infermiere, impegnate nella stanza di fronte dal signore col respiratore, anzi coi signori col respiratore, perché da uno erano diventati due. Dopo le 12.00 è successo il finimondo, l’ospedale è stato chiuso per caso di Covitd-19 e, cara mamma, era esattamente sul tuo piano, nella camera di fronte. Come te, nei giorni successivi, tutte le persone della tua camera sono decedute.
Mariangela Armanni
Sabato 28 marzo. Congestione nasale e febbre sotto i 37,5. Assunzione di mucolitici e Tachipirina. La saturazione oscilla tra 93-94%. Martedì 31 marzo. La saturazione scende a 90, nessun medico è disponibile per visitarlo. Mercoledì 1 aprile. Un medico dell’Usca ci contatta al telefono e parla con mio papà. Ci consiglia di continuare con le cure domiciliari, contatterà il medico di base. La telefonata non avverrà.
Cristina Longhini
Mercoledì 18 Marzo avvisano mamma che papà è peggiorato: senza un posto in terapia intensiva non si salverà. Papà viene trasferito in pronto soccorso. Chiamo tutti quelli che conosco: il posto non si trova. Papà viene intubato verso sera, ma senza arrivare alla terapia intensiva. Alle 5 mi chiama il Dr. Manzoni: “L’ossigeno non arriva agli organi periferici, la richiamo appena suo papà sarà morto”. Poi il vuoto. Alle 7:45 richiamo io. Papà risulta essere morto da dieci minuti.
Isabella Sala
È l’11marzo, Maria Rosa si ammala: un po’ di tosse, un po’ di febbre, sarà influenza. Il medico le prescrive un antibiotico. “Mamma, non è meglio telefonare al numero verde della Regione?” L’operatore dice: se non c’è affanno, va bene così. È il 20 marzo. “Ma se non c’é affanno”, dice l’operatore del 112. Alla fine l’affanno arriva, e con esso l’ambulanza. Il saturimetro indica 45. L’operatore scuote la testa: 45 non è un valore compatibile con la vita. Non la rivedremo più. Quando ho scritto questa cronaca noi figli non eravamo ancora riusciti a ottenere un tampone, a 60 giorni dall’ultimo contatto con mia madre.
(1 – Continua)