L’affondo a un “governo e a una politica che sono più dannosi del Covid” è stato perentorio. Per Carlo Bonomi, neo presidente di Confindustria, è tutto da rifare. Basta con i soldi a pioggia, stop alla spesa pubblica; più produttività, contratti nazionali da riscrivere e un piano di investimenti in grandi opere infrastrutturali da “sbloccare”. In fondo una ricetta buona per tutte le stagioni, che dimentica l’urgenza e l’eccezionalità della crisi sanitaria ed economica. Ma mentre l’esponente di spicco dell’imprenditoria italiana, elargisce alla politica la sua lezione, dovrebbe al contempo guardare in casa propria.
Il neo capo di Confindustria è nei fatti un imprenditore sui generis. Più scafato finanziere che industriale. Possiede la sua Synopo attraverso un complicato giro di scatole societarie che gli consentono di governare la società con solo il 4,5% del capitale. Con soli 31 mila euro di investimento personale in Ocean srl, scende a cascata via Marsupium, fino a Synopo, garantendosi la guida con un investimento personale di rischio risibile. È lo schema delle cosiddette scatole cinesi tanto caro in anni lontani ai vari Tronchetti Provera, ai De Benedetti agli Agnelli, a cui evidentemente Bonomi deve essersi ispirato. È un modello comodo, si controlla una società con il minimo delle quote e con un uso astuto della leva finanziaria che abbatte il rischio personale. Il vero business industriale però non è neanche in Synopo. Occorre scendere a valle nella Sidam, azienda controllata al 90% da Synopo che opera nel biomedicale. Di stanza nel cuore del distretto del biomedicale a Mirandola (Emilia), Sidam non spicca certo per dimensioni. Il bilancio 2018 conta ricavi per soli 13,8 milioni di euro con un utile netto di 2 milioni. Profittevole certo, ma piccola piccola con i suoi 70 dipendenti. Sidam nel 2017 si è comprata il 75% di Btc, sempre biomedicale, ma anche qui il fatturato è da piccola impresa. A conti fatti in questo ginepraio di scatole una sull’altra, Bonomi fa l’imprenditore avendo in portafoglio poco meno del 4% di una società, la Sidam che fattura poco più di 10 milioni di euro. Non certo un esempio fulgido di imprenditoria che mette sul piatto il suo capitale di rischio.
Ma Bonomi nel suo ricettario liberista anti-crisi, che vede lo Stato in pista solo quando serve, cioè quando le cose vanno male, salvo poi lasciare strada spianata al laissez faire, omette il disimpegno di quegli imprenditori che da anni staccano fior di dividendi all’estero. Un caso eclatante sono i fratelli Rocca, tra i suoi grandi sponsor nell’elezione a capo di Assolombarda prima e poi degli imprenditori italiani. I Rocca, via Tenaris domiciliata in Lussemburgo, si sono dati oltre 3 miliardi di euro in dividendi tra il 2014 e il 2018. Sono in buona compagnia con gli Agnelli, i Ferrero e altri campioni dell’imprenditoria italiana che hanno munto dividendi tra Olanda e Lussemburgo per oltre 8 miliardi negli ultimi anni. Soldi che escono dal sistema Italia, per non farvi più ritorno.
Nell’afflato polemico contro il governo, Bonomi dimentica anche il vizietto antico di molta classe imprenditoriale di bussare allo Stato, quando si mette male. L’esempio ce l’ha in casa. Il Sole 24 Ore, il quotidiano edito dalla Confindustria, chiederà l’ennesimo stato di crisi a carico dello Stato. Il costo del lavoro dei giornalisti va tagliato del 25% per far fronte alla crisi. Quindi l’ennesimo giro di cassa integrazione, e/o solidarietà e ammortizzatori pubblici. Non solo, il giornale di Confindustria chiederà di usufruire del decreto Liquidità per avere la garanzia pubblica Sace sui prestiti bancari, che evidentemente non rientrano tra i tanto esecrati aiuti “a pioggia”. Peccato che Bonomi non dica che in pancia a Confindustria ci sono ben 14 milioni di liquidità investiti in polizze e ben 50 milioni di riserve. Anziché chiedere l’aiuto pubblico, Confindustria potrebbe usare la sua liquidità per supportare il suo giornale in crisi. Quanto ai debiti non pagati della Pubblica amministrazione verso le imprese, altro cavallo di battaglia degli imprenditori, anche qui un po’ di compiti a casa non guasterebbero. Il Sole ha debiti commerciali scaduti per 5,9 milioni. Pagare i fornitori potrebbe essere un buon esempio. Non solo, Confindustria non spicca per coerenza quando c’è da far di conto. Il Sole 24 Ore è iscritto nel bilancio dell’associazione a 89 milioni di euro, come se fosse normale per un giornale che va in rosso già a livello di margine lordo, che ha patrimonio per soli 31 milioni e che capitalizza in Borsa solo 25 milioni di euro.
Quando c’è da far di conto sui propri asset, Confindustria è di manica larga. Salvo poi alzare il ditino e impartire lezioni a tutto campo.