L’intervista capovolte

“Se fossi il Salvini nero la pacchia finirebbe: ma per i cari lumbard”

Aboubakar Soumahoro - In difesa dei braccianti

8 Giugno 2020

Lei da questo momento è mister Pacchia.

“Cioè devo far finta di essere leghista?”

Mettiamo che Aboubakar Soumahoro, da sindacalista che organizza i braccianti agricoli, i sans papiers, i senza diritti, divenga salviniano intransigente, durissimo. Ricordate lo slogan? “La pacchia è finita!”.

Sarà una conversione inaspettata e potente che la conduce a gridare forte il nuovo alfabeto, il vocabolario di un’Italia italianissima. Deve mostrare a Salvini cos’è l’ortodossia, la purezza.

Possiamo iniziare col dire che sono un italiano diversamente abbronzato, così addolcisco il tratto.

Vero, così intriga, desta curiosità e annulla in me l’idea di un distanziamento oggettivo.

Prima gli italiani? Allora io dico di più. I varesotti a Varese. E questo tempo del Covid che ha fatto alzare i muri deve proseguire anche fisicamente. Un muro che tenga i calabresi al loro posto, un altro che isoli Milano dalla contaminazione anti lumbard. E i torinesi a Torino.

Torino senza meridionali è come una farfalla senza ali. Significa che vuole condurla alla morte.

Interpreto Salvini. Semplicemente. Ciascuno con la sua razza e il suo dialetto, i suoi usi e costumi. Ci vuole rigore filologico e politico. L’ortodossia non ammette devianze né dubbi e mediazioni.

Lei così mi viene troppo leghista

La purezza è propria degli spiriti convinti.

Aboubakar vuole strafare

Il cibo? Ciascuno cucini ciò che sua nonna gli ha insegnato.

Così rotoliamo nella più disperata autarchia, in un sovranismo troppo spinto. Lei deve intendere il leghismo con più approssimazione, altrimenti si finisce a carte quarantotto

Vede? La magia non funziona perché l’idea cattiva della separazione, se portata alle sue conseguenze naturali, produce un disastro, un mondo invivibile, inaccettabile.

Intanto l’Italia non accetta più migranti. Porti chiusi.

C’è un aerosol collettivo che sprigiona particelle di razzismo. Non è più il sottofondo di una società tollerante, ma il coperchio che occlude ogni discussione e nasconde il sentimento che si priva di ogni pudore e legittima non più episodi isolati ma un’idea razziale della società. Nella pandemia tutti ci siamo preoccupati di difenderci dal virus. Anzi abbiamo detto che il pericolo siamo noi, ciascuno di noi è potenzialmente l’untore.

Vero, il pericolo siamo noi.

E però l’Italia ha reso per legge i migranti senza permesso di soggiorno “immuni” da qualunque virus. Loro semplicemente non esistono, e seppure esistono non possono contagiare. Lo dice la politica rifiutando qualunque presa di coscienza della realtà, della giustizia, della stessa Costituzione della Repubblica. Perciò nega loro la possibilità di avere un’identità certificata, una tessera sanitaria con la quale bussare alla porta di un medico, chiedere di farsi curare. Loro non tossiscono mai, non si ammalano mai.

Sono appunto invisibili.

Invisibili non solo i braccianti, ma tutti i nuovi senza diritti. I riders per esempio, le tante partite iva, il numero poderoso dei nuovi precari, coloro che non hanno nulla.

Non solo migranti e non solo barconi.

Capita, non sempre ma capita, che quando il datore di lavoro viene convocato dal sindacato (io rappresento l’Ubs) si siede al tavolo e chiede chi lo stia costringendo al negoziato. Gli fanno cenno con la mano che sono io il sindacalista, quello diversamente abbronzato, e allora vedo spalancare gli occhi.

Quando ha scelto di migrare aveva in testa un luogo preciso, un Paese?

Io amavo l’Italia, ero innamorato pazzo del calcio italiano, della moda italiana. Guardavo tutte le partite di Champions, i miei idoli erano Zola, Baggio, Maradona. Ritagliavo le figurine, sapevo tutto di voi.

Ha avuto il tempo di laurearsi in Sociologia (110 su 110) alla Federico II di Napoli.

Ma il primo incontro è stato con la Lombardia, dalle parti di Seveso. Un freddo cane, come non avrei mai immaginato. Poi la discesa a sud.

Poi la laurea.

Poi ogni lavoro possibile.

Poi il sindacato

Non è un mestiere fare il sindacalista. Lo si è 24 ore al giorno, qualunque lavoro si faccia. Ci vuole connessione sentimentale con chi ti sta al fianco, avere in testa la ragion d’essere di un uomo, avere chiaro l’agire conseguente.

Di nuovo nelle braccia di Marx.

Guardi questa foto. Era al tempo di Bossi, e io con alcuni compagni teniamo in mano il verbo: la Padania.

Qui gatto ci cova.

Beh, li sfottevamo ma con eleganza.

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