Da almeno un quarto di secolo la Lombardia è la roccaforte della destra italiana. Fu nel 1995 che Roberto Formigoni avviò i suoi diciotto anni di governo ininterrotto al Pirellone, edificando un blocco di potere culturale, sociale ed economico incrinato solo dagli scandali. Intorno al Celeste, all’egemonia della sua rete comunitaria e affaristica, perfino il berlusconismo e il leghismo venivano relegati a satelliti di un meccanismo amministrativo perfettamente oliato. Vero è che quando Formigoni fu travolto dalle sue stesse spudorate malversazioni, nel 2013 il leghista Maroni faticò a sconfiggere, di soli 4 punti percentuali, il candidato di centrosinistra Ambrosoli. Ma nonostante la rinuncia in extremis di Maroni, cinque anni dopo, nel 2018, il suo successore Attilio Fontana sfiorò addirittura il 50% dei consensi, lasciando indietro di venti punti Giorgio Gori. Riscossa completata l’anno seguente, alle europee 2019, quando la Lega di Salvini conseguì in Lombardia la percentuale stratosferica del 43,38%. Un trionfo. Sembrava che non ce ne fosse più per nessuno. Perfino oggi che l’infelice accoppiata Fontana-Gallera precipita nell’impopolarità per via della disastrosa gestione dell’emergenza Covid, è prematuro dedurne che i lombardi siano pronti a voltare pagina, ripudiando la “loro” destra sempiterna.
La collezione di infortuni nella quale la destra lombarda sembra inciampare – dalle delibere a pagamento rivelate dall’inchiesta “mensa dei poveri”, fino alla mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana; dall’obbrobriosa vicenda delle Rsa, fino alle forniture fatturate e stornate ai familiari del presidente, e da ultimo all’affidamento irregolare dei test sierologici Diasorin – è figlia della caduta in disgrazia di Formigoni. Che ha risvegliato gli appetiti degli ex satelliti, ai quali non è parso vero di avviare una imponente redistribuzione dei posti di potere per i quali erano sprovvisti del personale adatto.
Non credo di poter essere accusato di simpatia per Formigoni, la cui invadenza spregiudicata denunciavo quando pareva intoccabile, se rilevo che siamo caduti dalla padella nella brace. A partire dalla sanità, senza trascurare Trenord e il tentativo di assalto (fallito) alla Fondazione Cariplo, si sono fatti avanti personaggi famelici, autoritari, ma contraddistinti da palese incompetenza. La lottizzazione delle nomine, che il circuito ciellino affidava a uomini ombra navigati come Nicola Sanese (segretario generale della Regione) e Carlo Lucchina (dg Sanità) per i leghisti è finita nelle mani di Giulia Martinelli, ex moglie di Salvini, capo segreteria di Fontana, e per Forza Italia nelle mani di Mimmo Pacicca, il dg della Sanità che Gallera ha convinto a dimettersi quando sfiorato dalle inchieste della magistratura. Se prima il Celeste delegava a faccendieri esperti come Simone e Daccò la relazione con protagonisti della sanità come don Verzè, Rotelli, Maugeri, adesso a trattare per conto di Giorgetti o della Gelmini sono dei parvenu ignari di gestione del potere. Dal Pio Albergo Trivulzio al neurologico Besta, gloriose istituzioni della sanità lombarda, abbiamo visto entrare in azione “uomini nuovi” di comprovata inesperienza. E così è successo un po’ dappertutto, nella macchina amministrativa e negli enti lombardi. Lungi da me indulgere al detto qualunquista “si stava meglio quando si stava peggio”. Ma è sotto gli occhi di tutti il decadimento della classe dirigente lombarda, azzoppata per giunta dalle infiltrazioni della ‘ndrangheta, e culturalmente subalterna a rappresentanze degli industriali e dei commercianti che non brillano certo per capacità di rinnovamento: la Confindustria regionale è presieduta da Marco Bonometti, nostalgico di Mussolini, tenace assertore dell’apertura degli impianti nel pieno della pandemia; dalla Confcommercio ancora nessuno osa schiodare il più longevo degli andreottiani, Carlo Sangalli.
La tragedia che ha colpito la “locomotiva d’Italia”, con i suoi oltre 16 mila morti per Covid, ha indotto opinionisti solitamente equilibrati come Ferruccio de Bortoli a protestare contro il presunto sentimento anti-lombardo che sarebbe diffuso nel resto del paese. Ma a parte che dovrebbero spiegarci perché mai questi italiani insofferenti della superiorità padana se la prenderebbero con la Lombardia e non con il Veneto, diciamocelo: il vittimismo è un alibi che non ha mai aiutato nessuno, neanche quando viene attribuito ai meridionali alle prese con le piaghe del Mezzogiorno.
Meglio sarebbe se gli uomini dell’establishment riconoscessero le buone ragioni della delusione generalizzata fra i cittadini lombardi, di fronte all’incompetenza rivelata da chi li governa. Un rischio che si può correre anche se la destra fosse destinata a restare insediata al Pirellone.