Il profilo di Cristoforo Colombo adesso affiora dal lago del Byrd Park di Richmond. La salma arrugginita è appoggiata in orizzontale, come un ubriaco che riposa. La sua statua è stata divelta e gettata in acqua, ultima di un lungo elenco di caduti. I monumenti sono come le bandiere, hanno storia e colore: non sono neutrali. Non lo è nemmeno Colombo, perché dopo la scoperta dell’America sono arrivati lo sterminio dei nativi e la schiavitù. Gli attivisti di “Black lives matter” l’hanno decapitato a Boston e lanciano petizioni per abbatterlo in tante città americane, dopo averlo fatto con le statue di sudisti e confederali.
A Bristol, in Inghilterra, i manifestanti hanno divelto la statua dello schiavista Edward Colston, trascinato per la città come Ettore fuori dalle mura di Troia e poi gettato nelle acque del porto. A Londra è stato il sindaco Sadiq Khan ad annunciare che i monumenti dei commercianti di uomini saranno rimossi, come Robert Milligan di fronte al museo dei Docklands. L’ondata antirazzista coinvolge il quieto Belgio (con l’assalto alle statue di Leopoldo II, sanguinario colonialista) e persino la neutrale Svizzera (a Neuchatel c’è una petizione per smantellare lo schiavista David de Pury). È una costante storica. Quando un popolo si muove per sovvertire un regime o un sistema di valori, tra le prime teste a rotolare ci sono quelle di metallo o di marmo. È ancora negli occhi del mondo la caduta fragorosa della sagoma di Saddam Hussein dopo la presa di Baghdad nel 2003. Non c’erano le tv invece il 25 luglio del 1943, a Bologna, quando un movimento festoso prese d’assalto l’enorme statua di Mussolini. Un gigante di bronzo da 70 quintali, alto cinque metri, troppo pesante e resistente: non fu abbattuto. Ma gli antifascisti riuscirono a decapitarlo.
Praga ha sempre odiato con veemenza il bronzo di Ivan Konev, maresciallo simbolo dell’occupazione sovietica per i cechi, eroe della liberazione dell’Europa orientale per i russi. La sua statua è stata picconata, colpita da vernice rosso-sangue, finché le autorità ceche hanno deciso di eliminare l’icona della discordia qualche mese fa, facendo divampare l’ira del Cremlino. La Duma ha aperto un’inchiesta penale “per diffamazione dei soldati dell’Armata Rossa”. Il sindaco di Praga è finito sotto scorta tra minacce e tentativi di avvelenamento. Mosca ora vuole portare a casa il bronzo del “generale che non si è mai ritirato”, le cui spoglie custodisce da anni con zelo tra le mura del Cremlino, poco lontane da quelle di Stalin.
Dell’uomo d’acciaio, invece, a Budapest rimangono solo gli stivali sul piedistallo, insieme agli altri 42 bronzi comunisti che l’Ungheria ha relegato in periferia, al Memento Park. Se la distruzione dello Stalin di Budapest ha segnato la fine della dittatura comunista, lo smembramento del Lenin di Kiev ha dato inizio alla rivoluzione di Maidan nel 2013. Rimasta in piedi dal 1946 nonostante il collasso dell’Urss nel 1991, la statua era già stata presa a martellate dalla furia nazionalista ucraina: nel 2009 aveva perso il naso e un braccio. Ogni ucraino si è portato poi a casa un pezzo del suo marmo prima che la guerra del Donbas scoppiasse nel 2014.
Conflitti iniziano, altri finiscono. Quando si è concluso quello a Mostar, città martire delle battaglie jugoslave, bosniaci, croati e serbi cercarono un’icona di pace dopo centinaia di migliaia di morti. Riuscirono a concordare solo su un nome: “un simbolo condiviso di giustizia e solidarietà”. Incredibilmente non fu scelto un eroe slavo: fu eretta invece la prima statua di Bruce Lee.