Quando i banchieri centrali cercano un modo di assorbire enormi shock economici, le forze di mercato tendono a finire in secondo piano. Questo ha almeno due conseguenze negative: da un lato, le persone temono i rischi di bolle speculative e dell’instabilità finanziaria, dall’altro si fa più arduo per gli investitori gestire i portafogli.
La Federal Reserve americana ha stabilito chiaramente la sua priorità: evitare ogni sconvolgimento, anche se questo significa gonfiare e distorcere i prezzi dei titoli. Dopo l’ultimo incontro di mercoledì, il presidente della Fed, Jay Powell, ha chiarito che ora l’attenzione è concentrata sul modo di facilitare le condizioni finanziarie per l’economia in generale, perseguendo una politica di bassi tassi di interesse e altre misure di sostegno. “Il nostro compito è massimizzare l’occupazione e garantire la stabilità dei prezzi – ha spiegato – ed è quello che stiamo facendo”.
Un modo per ottenere questo risultato è tenere sotto controllo i rendimenti del Tesoro a 10 anni. Il parametro dei titoli di stato, infatti, è estremamente influente in quanto aiuta a determinare il costo dei mutui a lungo termine a tasso fisso. Ma la sua influenza si estende anche ad altri mercati. Per fare un esempio, quanto più basso sono i rendimenti, o il tasso di sconto, tanto maggiore è la valutazione teorica delle azioni. E tanto più alti sono i rendimenti, tanto meno gli investitori sono disposti a pagare premi per gli asset più rischiosi, come le obbligazioni societarie o i prestiti.
È sfumata di recente la possibiltà di un rialzo dei rendimenti a 10 anni verso l’1 per cento; venerdì mattina il tasso era poco superiore a 0,7. Molti ritengono che la banca centrale statunitense non tollererà che i tassi superino questa soglia fin quando l’economia non sarà sulla strada della ripresa e la pressione dell’inflazione ricomincerà a farsi sentire. Potrebbe volerci un bel po’ prima che accada.
L’obiettivo di mantenere basso il tasso di rendimento a 10 anni è complicato dal fatto che il Tesoro statunitense sta vendendo molto debito per finanziare un deficit di bilancio in rapida crescita. Perciò, sul mercato obbligazionario ci si aspetta un’escalation nell’acquisto di obbligazioni da parte della banca centrale, che riguarderebbe i titoli del Tesoro di lunga data, se non addirittura una mossa simile a quella del Giappone di controllo formale dei rendimenti.
Annullare i tassi per così tanto tempo apre la strada a quello che Thomas Costerg, economista statunitense del Pictet Wealth Management, ha chiamato “sistema monetario a predominio debitorio”.
BlackRock ha affrontato il tema lo scorso agosto, scrivendo sulla necessità di combinare sforzi monetari e fiscali per mitigare le recessioni. Il messaggio è stato recepito, vista la massiccia risposta congiunta data negli ultimi mesi da governi e banche centrali. Ma il fondo evidenziava anche la necessità di mettere sul piatto “barriere adeguate e una exit strategy chiara volta a mitigare il rischio di una spesa in deficit fuori controllo, che provocherebbe una commisurata espansione monetaria e, in ultima istanza, l’inflazione”.
Non tutti sono convinti che l’inflazione sia un problema di ultima istanza. Ma Costerg sospetta che “livelli di debito elevati limiteranno ulteriormente l’azione della Fed nei prossimi anni, rendendo più difficile la normalizzazione dei tassi”.
Non sarebbe certo un terreno nuovo per gli investitori. Prima della pandemia, i gestori di fondi avevano dovuto affrontare un decennio di crescita reale ristagnante, con bassa inflazione e debiti pubblici e privati sempre più grandi.
Ora, invece, è importante chiedersi se la presenza accresciuta delle banche centrali sui mercati avrò un impatto sulle tendenze di investimenti operati sulla scia del 2009. L’ultimo aggiornamento della banca centrale statunitense, mercoledì, ha suonato il campanello d’allarme sul fatto che la ripresa dell’economia statunitense sarà ben poco brillante fino a tutto il 2022, con una modesta pressioni inflazionistica di base e la prospettiva di elevati livelli di disoccupazione.
In questo contesto, non è da escludere l’eventualità di una corsa alle azioni di società meno costose e poco amate, usate come “depositi di valore”. Proprio questa settimana si è bruscamente conclusa una fase di impennata nei titoli di tali aziende. Altri picchi si erano registrati in precedenza ad aprile 2010, agosto 2014 e ottobre 2018. Nei prossimi 12 mesi, nel contesto di una pandemia che si sta affievolendo e di un miglioramento delle condizioni economiche, gli investitori avranno probabilmente maggiori opportunità di cavalcare simili mosse al rialzo.
Ma quando si tratterà di collocare asset a lungo termine, gli investitori saranno inclini ad acquistare titoli di aziende e settori dove si registra una tendenza al rialzo delle vendite e dei profitti, e quindi approfitteranno di ogni calo di prezzo contingente. Quelle aziende che si dimostreranno all’avanguardia, con solide prospettive di crescita e capaci di rompere con i vecchi modelli di business, potranno godere di un bonus nelle valutazioni, soprattutto in un contesto di basissimi rendimenti del Tesoro a 10 anni.
Ciò, a sua volta, alimenterà il timore che molti di questi titoli – in particolare nei settori della tecnologia e della sanità – siano negoziati a costi troppo alti.
Dhaval Joshi, della BCA Research, sostiene che “i mercati azionari in crescita non creano una bolla se i rendimenti delle obbligazioni rimangono estremamente bassi. Ciò significa in altre parole che l’alta valorizzazone assoluta dei mercati azionari in crescita si trova subordinata alla permanenza di rendimenti obbligazionari a livelli bassissimi. Di converso, la più grande minaccia per la valutazione dei mercati azionari in crescita è proprio l’aumento sostenuto dei rendimenti obbligazionari”. (traduzione di Riccardo Antoniucci)
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