“Attraverso il mio lavoro, cerco di dar voce a tutte quelle donne marocchine che hanno voglia di raccontare la rivolta per poter disporre liberamente dei propri corpi, sperimentare l’uguaglianza con gli uomini all’interno della sfera pubblica e non sentire più la pressione sociale.”
Non manca di coraggio la scrittrice Leïla Slimani, che ama dire di sé – in replica al solito adagio che la vuole francese d’origine marocchina – “Io sono cento per cento marocchina e cento per cento francese”. Nata a Rabat nel 1981, vince il Prix Goncourt nel 2016 con il suo secondo romanzo Ninna nanna (Rizzoli), che diviene un best-seller internazionale. Nell’onda breve di qualche anno dall’esordio, è ormai entrata a ragione nel pantheon delle scrittrici francesi contemporanee, tanto che le sue veementi prese di posizione – non teme la definizione di intellettuale impegnata a favore del multiculturalismo e dell’europeismo – suscitano sempre molto scalpore. Come quando, sulle colonne del settimanale francese Le 1, una decina di giorni dopo l’attentato a Charlie Hebdo, rimprovera a Michel Houellebecq di fare male a “nascondersi dietro una falsa posizione di neutralità” quando afferma che agli scrittori non spetta il compito di cambiare il corso della Storia. E a tal proposito, ora che la intervistiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Nel paese degli altri (La Nave di Teseo, traduzione di Anna D’Elia, pp. 350, euro 19) – il primo appuntamento di una trilogia che procederà dalla fine della Seconda Guerra mondiale fino al terrorismo degli anni duemila –, tiene a precisare che: “La letteratura consiste nell’esplorare il mondo. Ognuno può declinarlo a suo modo. Alcuni scelgono una letteratura impegnata, altri una più intima: nessuna è più legittima dell’altra. Ciò che conta è scrivere con onestà poiché prima di ogni cosa essa è un territorio di libertà e verità.”
A proposito di verità. La retorica vuole la condizione della donna dipendente dalle classi sociali e dalla differenza geografica; ma la cronaca dimostra che anche nei paesi civili le donne vengono ammazzate, sfigurate con l’acido, meno pagate dei colleghi uomini oltre a essere meno presenti nei ruoli di potere.
Come scrittrice, mi interesso alle sfumature e all’incerto poiché la verità sta nel mezzo. Ciò che è certo è che il patriarcato non conosce religione, geografia o colore di pelle. Ovunque, l’odio verso le donne conduce alla violenza, al delitto, alla negazione della loro libertà. Ecco perché la lotta femminista deve essere universale.
Ne Il paese degli altri, non ci sono eroi o eroine. Gli uomini sono mossi dall’umiliazione e dal desiderio di vendetta, mentre le donne sono vittime, oltre che degli uomini, anche delle altre donne. Oggi, grazie al femminismo qualcosa è cambiato?
I miei personaggi non sono simboli, per questo non vengono mai fuori come eroi o eroine, ma personaggi più umani possibile, perché quello che mi interessa è l’essere umano allo specchio, raccontarne contraddizioni, fragilità, bellezze, quello che poi ci fa identificare. Purtroppo, ancora oggi ci sono uomini vendicativi e donne vittime o sottomesse, ma per fortuna non solo quello. Io sono femminista, e lo sono perché non voglio vivere in un mondo in cui devo avere paura degli uomini ma solo amarli. Né voglio che mio figlio sia spinto a crescere brutale e macho. Credo che il femminismo goda di buona salute e le donne siano più solidali tra loro, è questa la loro forza. Personalmente, credo anche nell’adesione dei giovani uomini all’ideale di un mondo in cui la violenza tra i sessi è sparita.
Il sesso è sempre molto presente nei suoi libri, già in I racconti del sesso e della menzogna (Rizzoli) raccoglie storie della non-educazione sessuale dentro cui sono costrette le donne marocchine.
Lavoro molto attorno alla questione del sesso, o meglio del corpo. Provo a raccontare le logiche di dominazione che si nascondono dietro il sesso, ma anche il sentimento di estraneità che questa relazione intima può suscitare. Per una donna, l’esperienza del corpo, della penetrazione, della dominazione fisica non sono mai innocenti.
Anche il razzismo è una forma di dominazione.
Il razzismo è come il patriarcato: un abominio che esiste ovunque e contro cui bisogna ancora lottare. Se si prende il caso George Floyd, non si fa fatica a immaginare un poliziotto criminale prendersela con un uomo nero anche in un paese europeo e ucciderlo. Ma negli Stati Uniti, il problema è strutturale, non individuale. La polizia ha giocato un ruolo essenziale nella segregazione dei neri e nell’incarcerazione di massa delle popolazioni nere e latine. C’è tutto un sistema da buttare giù.
Lei è stata nominata ambasciatrice della francofonia nel mondo dal Presidente Macron. Le piace il termine “francofonia”, che pure richiama l’idea di dominazione?
È una parola forte, che in passato voleva designare una specie di ghetto, di periferia della Francia. Non è certo un termine neutro, ma è per questo che bisogna mantenerlo: per rinnovarlo e trasformarlo senza dimenticare. La francofonia trae parte delle sue radici nella colonizzazione e quindi in una visione del mondo di dominanti e dominati. Noi dobbiamo ricordarcene e, allo stesso tempo, andare avanti e inventare una francofonia nuova, diversa, multilingue.