“Sei bella. Quante volte ti devo dire che sei bella? Hai 17 anni, io 50. Sai che per avere una ragazza della tua età devo solo dire cose dolci? Poi me la prendo”. Nella stanza dell’enorme campus universitario africano il grasso professore associato, calvo, sorridente e vestito di giallo, chiude la porta a chiave e spegne la luce. L’alunna comincia a provare panico ma lui continua a tirarla per un braccio dicendo: “Non aver paura”. Allarga le gambe agitando le ginocchia: “Baciami, vieni qui, baciami”. Boniface Igbeneghu, predatore tra i banchi dell’università di Lagos dove insegna e quelli della chiesa della Capitale nigeriana dove predica da pastore, spiega alla studentessa che se si concederà non avrà problemi all’esame. Accade al buio all’interno dell’istituto e noi possiamo assistere alla scena tutte le volte che vogliamo perché una reporter, Kiki Mordi, è riuscita a filmare una violenza che si compie da decenni in silenzio e che, prima di lei, nessuno era riuscito a documentare.
Nella stanza del professore Boniface, con due telecamere nascoste, c’era una delle ragazze che ha fatto parte del team della reporter nigeriana, composto da giornaliste sotto copertura, ex studentesse abusate, redattrici, autrici di un lavoro coordinato per oltre un anno tra Nigeria, Ghana, Gran Bretagna e poi prodotto dalla BBC Africa. Il titolo che Kiki ha scelto per il documentario riassume in una rima la lunga impunità degli accademici africani: “Sex for Grades”, Sesso per i voti: una pratica reiterata dei cattedratici nigeriani e ghanesi ai danni di migliaia di ragazze ogni anno.
Il professore Boniface ha abusato di decine di studentesse a Lagos e alcune di loro hanno tentato il suicidio. Lo ha fatto quattro volte una testimone rintracciata dalla giornalista, che spiega: “Non avevo potere, non potevo fare niente, altrimenti non mi sarei laureata”. Come Boniface ha agito il professore Samuel Oladipo, il lettore Ransford Gyampo, che comprava tacchi alti alle sue studentesse e gli porgeva le scarpe insieme alle domande: “Ti hanno mai baciato violentemente? Sarai mia moglie?”. I loro nomi, insieme a quelli di altri accademici, sono tutti finiti nell’elenco dei professori sospesi e messi sotto indagine dopo la diffusione del lavoro d’inchiesta di Kiki.
Il volto delle ragazze che hanno filmato segretamente i professori è protetto nel film da maschere bianche e nomi inventati, ma “non tutte ce l’hanno fatta”, spiega Kiki, “molte hanno abbandonato lungo il percorso, è facile darsi per vinte, però non le ho mai giudicate. Sono stata io la prima ad aver avuto bisogno di molto tempo per denunciare ciò che mi era successo” ha detto Kiki.
Un’indagine. E non una vendetta. A voce piena, alta, ferma la giornalista spiega al telefono che non ha voluto ricercare l’uomo che a 19 anni le ha spezzato la vita in due. La reporter piange due volte: per dolore quando ricorda il suo abusatore, per nostalgia quando parla di suo padre, morto di appendicite nel 2002. Lui la chiamava “little doctor”. Diventare medico era il sogno della reporter prima di essere costretta ad abbandonare gli studi perché rifiutò di concedersi a un professore dopo due semestri. “Non avevo futuro, né soldi, né aiuto, lui mi ha quasi distrutta”.
Quasi. Dieci anni dopo allora Kiki è stata molestata di nuovo: ma davanti alle telecamere nascoste quando si è finta una matricola per avvicinare uno dei professori accusati di abuso dalle vittime che fino ad allora erano rimaste in silenzio. Ha sentito l’eco del dolore risuonare, l’hanno trafitta schegge di memoria e non ha avuto vergogna a mostrare il suo volto rigato di lacrime: “Ma mi sono subito ricordata che sono una persona diversa da prima. Mi sono subito rialzata perché avevamo tanto lavoro da fare. Quello che ho subito io capita a migliaia di donne tutti i giorni”.
In Nigeria come in Ghana. All’università di Accra il fenomeno è così diffuso che un’organizzazione si occupa di insegnare tecniche di autodifesa alle ragazze. “Lasciami essere il tuo side-guy”, il tuo secondo fidanzato. Il professore ghanese Paul Quame Butako è stato ripreso ripetutamente mentre tentava di rendere la ragazza una concubina da pagare con numeri: quelli dei voti. Racconta la vittima: “La manipolazione sta nel farti credere che tu abbia scelta, ma non ce l’hai. Tutto il potere è nelle loro mani”.
“Ci vuole una comunità che ti supporti e ti spieghi che tu sei più di quello che ti è successo” dice Kiki. “Molti hanno provato ad associarmi al movimento americano: ma questo non è il #metoo. Negli Stati Uniti le donne che si ribellano hanno privilegi finanziari, talvolta sono celebrità che accusano altre celebrità. Noi non avevamo niente alle spalle, ma ci siamo sollevate comunque. Abbiamo alzato la voce più dei nostri aggressori” chiosa la reporter.
Dichiarata una delle 25 giornaliste africane dell’anno, ora collabora con la Commissione per i diritti umani nigeriana che l’ha contattata dopo che cinque milioni di persone hanno visto il suo documentario. “Al lavoro, all’università, perfino quando vai al mercato: la cultura dell’abuso è normalizzata e non l’abbiamo fermata noi con il film, ma le persone non hanno più paura di parlarne”. Non ha vinto ancora la battaglia contro i privilegiati predatori in cattedra, ma ha trionfato in quella contro il silenzio e i tabù sulla violenza e sesso in cambio di voti.
“Non verremo ridotte a quello che la società ci vuole ridurre a essere” conclude Kiki, la studentessa che non si è mai laureata, la ragazza che dieci anni dopo ha messo prima sotto i riflettori e poi in ginocchio gli universitari che l’hanno costretta a smettere di studiare, perché “sarai una vittima solo finché sopravviverai al sistema senza cambiare le cose. Io mi rifiuto di essere una vittima. Devono tutti saperlo: dall’ombra noi vi stiamo guardando”.