Francesca Pidone è la coordinatrice pisana di Telefono Donna, una Onlus nazionale che supporta le donne in difficoltà, in particolare quelle che hanno subito violenza, dando loro assistenza psicologica, legale ed economica. “È nato nel 1992 come servizio di ascolto ed è attivo tutti i giorni”, spiega Francesca, “siamo in contatto con il 1522, il numero nazionale antiviolenza, e con la rete D.I.Re., e per la Toscana con Tosca, la rete regionale. A Pisa le donne ci contattano allo 050561628 o tramite il nostro sito internet casadelladonnapisa.it e i social. Abbiamo istituito una casa rifugio nella quale ospitare le donne in difficoltà – con o senza bambini – in pericolo di vita in un luogo segreto. In genere succede subito dopo una querela o una richiesta di separazione: spesso dopo queste azioni la violenza nelle abitazioni aumenta”. Con la pandemia tutto si è ulteriormente complicato: “Durante la quarantena e il successivo lockdown molte donne sono rimaste senza lavoro e alcune di loro prendevano stipendi in nero. Purtroppo le donne hanno spesso situazioni più precarie e devono anche gestire i figli. Per sopperire a questa disparità di genere abbiamo creato un fondo per assistere le donne senza sussidio”.
Si tratta di una iniziativa di crowdfunding chiamata Nessuna da sola sulla piattaforma Eppela (www.eppela.com/nessunadasola). Grazie al sostegno dell’azienda farmaceutica Msd, ogni donazione verrà raddoppiata e permetterà di aiutare almeno dieci donne seguite dai servizi dell’associazione o in uscita dalla casa rifugio, con contributi concreti: dalle mensilità di affitto ai tablet per i figli e così via. Da marzo ad oggi sono 103 le donne che hanno chiamato per la prima volta Telefono donna e 290 le telefonate in totale.
“Per esempio ci ha chiamato una signora di circa 55 anni che aveva paura di rimanere chiusa in casa con il marito, affetto da una forma patologica di gelosia – racconta Pidone – . All’inizio si trattava di uno sfogo, ci raccontava delle aggressioni verbali e talvolta del lancio di oggetti. Le donne hanno difficoltà ad ammettere la violenza e hanno necessità di diverse telefonate prima di acquisire consapevolezza. Durante la quarantena da parte di molti uomini è aumentato il controllo sulle telefonate alle amiche e l’induzione all’isolamento della donna, anche con la sua famiglia di origine: il pretesto è quello di temere una frequentazione con il vicino di casa. La signora ci chiamava quando il marito usciva a fare la spesa e ci ha chiesto una consulenza perché voleva separarsi. Qualche giorno dopo ha ricevuto dal marito delle minacce con una katana – una spada usata nelle arti marziali – e ha deciso di chiamare le forze dell’ordine. Non essendoci flagranza di reato l’unica cosa accaduta è stata il sequestro della katana. Successivamente la situazione è degenerata e, mentre l’uomo stava picchiando la donna, il figlio si è messo in mezzo ed è riuscito a chiudere la mamma in una stanza e chiamare le forze dell’ordine. A quel punto la signora si è recata al pronto soccorso scioccata e con un attacco di panico ed è stato attivato il codice rosa, l’iniziativa della Regione Toscana per assistere le donne che hanno subito violenza. È stato trovato un alloggio per la signora e il figlio ed è stata fatta una querela al marito. Ci siamo poi accorte che qualche tempo prima avevamo seguito la cognata della signora che aveva problemi analoghi col marito. Questo perché spesso chi proviene dalla stessa famiglia può avere familiarità con la violenza”.
“Ci chiamano anche delle migranti che raccontano di avere problemi: i mariti non le mandano a scuola a imparare la lingua e le tengono isolate. Sono spesso donne molto forti. Sempre durante il lockdown è capitata persino un’aggressione a una studentessa da parte del suo fidanzato durante una sessione di lezioni online: i professori hanno assistito alla scena. In questo caso abbiamo fatto un lavoro di supporto ai docenti”.
Pensare a una sorta di redenzione degli uomini aggressivi è spesso pura utopia: “Sono anche membro del Tribunale di Sorveglianza – spiega ancora Pidone – e mi capita di occuparmi di misure alternative con i detenuti che hanno commesso violenza. Spesso gli uomini che seguono gli incontri specializzati faticano a cambiare e sono recidivi; è quindi importante monitorarli costantemente. Per fortuna alcuni riflettono, come un ragazzo ospitato nella casa rifugio con la madre: lui si chiedeva se sarebbe diventato automaticamente come il padre violento, quasi fosse inciso nel suo Dna. Bisogna ripensare i rapporti uomo-donna. Nel nostro piccolo vediamo tante vittime che si rifanno una vita, sopravvivono alla violenza e riprendono nuove relazioni. È un messaggio di speranza per tutte coloro che in questo momento soffrono: si può vivere meglio”.