Via il dente, via il dolore… c’è chi vorrebbe inaugurare presto la stagione dei licenziamenti di massa, rispettando la scadenza del decreto che li blocca solo fino al 17 agosto prossimo; o programmandoli a settembre, dopo le ferie. Secondo questa corrente di pensiero, mantenere fino alla fine dell’anno il blocco dei licenziamenti, come richiesto dalla Cgil, ostacolerebbe la riconversione delle aziende e prolungherebbe un’agonia che non giova nemmeno alle vittime predestinate. Tanto sono inevitabili. È un argomento drammatico, se ne parla sottovoce, c’è di mezzo la vita di tanta gente. Va ricordato che la politica era partita già col piede sbagliato, in materia di lavoro, nel marzo scorso. Quante volte ce l’han ripetuto in tv i leader degli opposti schieramenti: “Nessuno deve perdere il lavoro a causa del coronavirus”. Dubito che qualcuno ci abbia creduto. Personalmente, trovai autolesionistica l’insistita ripetizione di quella promessa impossibile da mantenere, degna semmai della cattiva propaganda dell’opposizione, e che invece fu solennemente rilanciata in conferenza stampa l’11 marzo a Palazzo Chigi da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Nunzia Catalfo: “Nessuno perderà il lavoro per il coronavirus”. Testuale. Fu Gualtieri a incaricarsi di ripeterlo nei tg. So bene che il politico italiano non paga pegno neanche quando contraddice impegni assunti tre mesi prima. Ma è preoccupante la leggerezza con cui gli uomini di governo – e in particolare quelli della sinistra – sottovalutano i guasti provocati da certe disinvolte rassicurazioni, palesemente insincere. È anche per via di questo vizio di dissimulazione che il legame storico fra sinistra e mondo del lavoro si è spezzato, sicché nessuno più crede che il Pd rappresenti gli interessi delle classi subalterne. Minimizzare i sacrifici necessari, negare le sconfitte subìte nella tutela e nella remunerazione del lavoro, è una pessima abitudine di scuola comunista, ereditata dal tempo dei “patti fra produttori”. Non mi ha stupito, perciò, leggere le dichiarazioni di segno opposto rilasciate da Gualtieri al Festival dell’Economia di Trento: “Nulla sarà come prima del Covid, non possiamo limitarci indefinitamente a prorogare cassa integrazione e blocco dei licenziamenti, i processi di cambiamento non possono essere congelati per troppo tempo perché poi esplodono tutti insieme”. Un bel salto, da marzo a giugno.
Si ripropone per l’ennesima volta, ma oggi in circostanze assai più drammatiche, una dichiarazione d’impotenza mascherata di buon senso: siccome la politica non è in grado di invertire le tendenze di mercato che penalizzano i lavoratori, allora meglio assecondare che mettersi di traverso. Già un anno prima del varo del Jobs act (cioè dell’invenzione del contratto a tutele crescenti e dell’abolizione dell’articolo 18 che imponeva la giusta causa per i licenziamenti), fu non a caso un ministro che proveniva dall’esperienza della Lega Coop, Giuliano Poletti, a firmare il provvedimento che anticipava la linea del governo Renzi: liberalizzazione dei contratti a termine senza causale e senza pausa obbligatoria, rinnovabili fino a otto volte (poi ridotte a cinque per le proteste sindacali). Oggi come allora la giustificazione resta la medesima: per attirare il lavoro nero fuori dalle paludi del sommerso, facilitiamo le assunzioni a termine e a chiamata, tolleriamo gli spin off aziendali, chiudiamo un occhio di fronte alla proliferazione delle false cooperative. Non basta. Per attenuare l’ingiusta disparità di trattamento fra questi proletari di serie B e i “garantiti” tutelati dallo Statuto dei lavoratori, autorizziamo orari elastici e ribassi salariali anche per i troppo fortunati. Sei anni dopo, conosciamo gli esiti della scelta di assecondare i processi spontanei nel mercato del lavoro: il lavoro povero ha conosciuto incrementi record e ha goduto di legittimazione istituzionale. Senza neanche che il sistema ne traesse vantaggi di crescita del Pil. È né più né meno quel che si richiede adesso, nel pieno della recessione Covid: sblocco dei licenziamenti e briglia sciolta nei contratti a termine. In altre parole, ripristino del Jobs act. Qui non ci troviamo di fronte solo all’estremismo padronale impersonato da Carlo Bonomi. È l’intera scuola economica bocconiana, nelle sue declinazioni liberiste e keynesiane, a sostenere che non ci sarebbero alternative. Vista la tegola che ci è caduta in testa, aiutiamo gli imprenditori a ricominciare. E se tratteranno peggio i loro dipendenti, e se ne manderanno a casa parecchi, pazienza, ci sta, sempre meglio della chiusura. Gualtieri pare adeguarsi a tale visione dogmatica che si pretende ineluttabile. Intervenire con mano pubblica su tassazione dei patrimoni, destinazione dei dividendi, condivisione dei profitti, passata la paura del Covid, torna a essere un’eresia.
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