A casa Bertolucci, nel quartiere Monteverde di Roma, ci sono stato due volte: la prima nel 1964, quasi solo per incontrare Bernardo e appartarci per parlare a bassa voce del suo primo film doc (La via del petrolio) e della mia prima produzione (Rai). Parlavamo sottovoce perché, dall’altra parte del tavolo del soggiorno, c’era Attilio Bertolucci, il poeta, il padre. Era sulla sua poltrona, vestito come se dovesse uscire benché si vedessero i preparativi per la cena in casa.
Il poeta muoveva le labbra leggendo da un libro che aveva sulle ginocchia e su cui annotava (poche volte, a matita) frasi o parole o un segno. Bertolucci padre non si occupava di noi, benché fossimo tutti nella stessa stanza. Bernardo mi aveva presentato e lui mi ha guardato benevolo, come un compagno di scuola del figlio, ha fatto un sì con la testa ed è tornato a leggere. Gli odori del cibo in preparazione erano degni del film Novecento che sarebbe venuto dopo. Mi piaceva avere incontrato e salutato Attilio Bertolucci. Mi piaceva quel suo silenzio padronale e paterno, con un senso della dislocazione che non prevedeva distanza, ma un altrove in cui lui intanto si era sistemato, come nel posto giusto.
I due poeti della mia vita in quel momento erano Ungaretti, che, insieme a Schifano, accompagnavo, certe sere, al Piper o a Venezia a una riunione del Gruppo 63. E Montale, che in un colonnino sul Corriere della Sera mi aveva rimproverato di scrivere troppo. “Furio, è necessario scrivere così tanto per esistere?”. Bertolucci mi portava vicino a un’altra figura, quella del borghese intelligente e colto che travalica i limiti del borghese intelligente e colto, ma non dà nessun segno di rivendicarlo o forse neppure di volerlo sapere, imbarazzatissimo delle lodi, anche perché si sentiva ancora, e in modo rigoroso, persona privata. Le sue righe di poesia arrivavano come una conversazione con un che di esclusivo fra te e il poeta, anzi fra te e il testo, dietro il quale il poeta volentieri non si faceva trovare. Il padre è poi venuto a vedere il documentario del figlio ventenne in una sala della Rai, ma con l’impegno di entrare senza accoglienze e di fuggire subito. Lo hanno trattenuto da Alberto Ronchey e Fabiano Fabiani. Bernardo, che aveva esordito proprio come poeta, suscitando attenzione prima di “scappare con la pellicola”, mi portava volentieri quando c’era suo padre, sia perché lo incuriosiva questo contatto con il Gruppo 63, sia perché sapeva che leggevo e traducevo poesia americana. E poi mi aveva detto di aver sentito un giudizio lusinghiero di Attilio a proposito di un mio articolo su Il Mondo. Forse era solo amicizia, ma era bello esserci. Era bello anche perché, nella vita quieta e privata del grande poeta, a un certo punto era avvenuta un’accelerazione: pubblicare di più, essere più visibile e personaggio della vita editoriale (Garzanti, Guanda), e dibattiti e interviste, ma solo di poesia. In quel periodo c’è qualcosa di cinematografico nelle opere di Attilio (Viaggio d’inverno, La camera da letto), come c’è qualcosa di poetico in molti film di Bernardo (Ultimo Tango, The Dreamers…).
Sono stato una seconda volta a casa di Attilio, una mattina del 2000, molto presto: Bernardo ha chiamato. Io avevo appena sentito alla radio la notizia. Mi ha detto: “Sono solo, vieni a farmi compagnia?”. La stessa casa, la stessa scena, niente di mutato nell’arredamento. Solo che erano aperte, come in una poesia, le porte di una grande camera da letto, in cui su un letto stretto e alto c’era il corpo, vestito come per uscire, di Attilio Bertolucci, composto, sereno e un po’ estraneo, come sempre. Bernardo conversava: letteratura, cinema, America e forse politica. Non voleva che pesasse la morte di suo padre su un suo amico. E attento come è sempre stato ai dettagli, mi è apparso che stesse pensando al Viaggio d’inverno, il capolavoro di suo padre. È poesia infinitamente ansiosa e gravata dal pensiero della morte, compensata da leggerezza impossibile ma consolante. Come allora, Attilio sembrava ascoltare con distratta benevolenza il figlio così bravo e il suo amico.