Immaginate un problema enorme, gigantesco, che coinvolga la salute e sia sotto gli occhi di tutti. Come è possibile tenerlo nascosto? Come fare a rendere l’opinione pubblica sorda al grido di dolore del mare, cieca a montagne di immondizia e muta allo stesso tempo?
La risposta è sommergerla sotto una mole di dati così complessa da spaventare anche il più competente dei divulgatori.
Questo problema ha un nome: plastica. Guardatevi intorno in questo momento e faticherete a trovare qualcosa che non ne sia fatto. È un materiale leggero, economico, durevole. Può assumere qualsiasi forma e essere usato per ogni scopo. Nel 2018 sono state prodotte 359 milioni di tonnellate di plastica e la sua produzione è in aumento costante. ...life in plastic, it’s fantastic cantavano gli Aqua.
Ma siamo sicuri che sia così vero? I problemi di ordine sanitario, ecologico e di smaltimento stanno per esplodere e una volta passata una certa soglia sarà troppo tardi.
Innanzitutto bisogna rimarcare come parlare di plastica al singolare non ha nessun senso. Si dovrebbe infatti parlare di plastiche: tantissimi materiali in apparenza simili ma con proprietà e composizione anche molto diverse. La legge italiana ne riconosce almeno 38 famiglie, ma ogni molecola può essere combinata con altre sostanze chimiche per alterarne alcune caratteristiche: il colore, la resistenza, l’espansibilità, la tolleranza al calore e altre ancora.
Iniziamo con un problema di ordine fisico: la plastica è ovunque! E anche i suoi rifiuti. In terra infesta strade e campi. Vedere l’immondizia per terra dà subito una sensazione di degrado e sporco. Ma trovare un luogo incontaminato è un’impresa: dalla vetta dell’Everest alla Fossa delle Marianne, ovunque sono stati trovati rifiuti plastici. In mare esistono intere aree che sono diventate delle zuppe di plastica. La più grande è il Pacific trash vortex, più grande della Spagna e composta da 100 milioni di tonnellate di frammenti.
Esistono progetti, tra cui Ocean clean up, che si propongono di ripulire gli oceani da questa piaga ma, al momento, lavorano su una scala troppo piccola ed è inverosimile che si riesca a incidere in modo significativo se non smettiamo di inquinare i fiumi e i mari.
Nell’aria la plastica si aggira dopo essere stata bruciata a scopo energetico. Nel continente più virtuoso, l’Europa, il 40% del rifiuto plastico viene impiegato a questo scopo contro il 30% di riciclo.
L’obiettivo nobile e virtuoso del riciclo è giusto, ma non tutte le plastiche possono essere riciclate, molte solo una volta e con un’efficienza variabile. In questo senso l’obiettivo dev’essere la sostituzione delle plastiche come sostanze di basso costo, riservandole come materiale tecnico ad alta performance come nel campo biomedico, elettronico o aerospaziale. Basti pensare al packaging, orpello inutile, usa e getta, a cui è destinato il 40% della plastiche prodotte. Si potrebbe sostituire con materiali pluriuso o abolire del tutto come nella vendita di oggetti sfusi. Ma il punto è che l’uso che facciamo delle plastiche è simbolo stesso del consumismo: oggetti a rapido ricambio, poco costosi e di facile produzione. Dobbiamo cambiare il paradigma. Bisogna puntare al meglio, anzi alla felicità, non al di più. Il fantasma di un Natale futuro di Dickens oggi mostrerebbe una Terra ricoperta di inutili e coloratissime chincaglierie a 1 euro.
Ma le plastiche non presentano “solo” un problema di smaltimento bensì di salute.
Alcune materie plastiche sono certamente cancerogene secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, ma anche nel processo di produzione o di degradazione possono diventarlo.
Inoltre l’effetto più diffuso è quello di interferente endocrino. La struttura chimica delle molecole plastiche può mimare quella di alcuni ormoni con effetti devastanti. La polverina nera presente sugli scontrini (il bisfenolo A) causa ermafroditismo e le cassiere hanno il 100% di possibilità in più di dare alla luce bambini con questo problema rispetto alle altre mamme, tanto che in Francia il Senato ha bandito questa sostanza.
Infine esiste un problema legato alle micro e nanoplastiche. Particelle prodotte dalla degradazione delle plastiche, così piccole da poter penetrare nel nostro corpo trasportate dal vento o ingerite con acqua e cibo, i cui effetti sulla salute iniziano solo ora a farsi vedere. Per il momento sappiamo che ingeriamo circa 5 grammi a settimana di plastiche (come una carta di credito) e ne inaliamo il doppio. Bere acqua del rubinetto e arredare le nostre case con delle piante che filtrino l’aria sono alcune prime misure in grado di ridurre significativamente l’assunzione di microplastiche.
Come avrete capito da questa panoramica sul fenomeno plastiche, l’elefante è nella stanza e tutti si ostinano ad ignorarlo. Bisogna ridurre la produzione di plastiche, destinandole a materiale tecnico ad alta performance, sostituendole dove possibile. Dobbiamo inoltre sviluppare sistemi per rimuoverla e per ridurre l’impatto sulla salute. Il problema è complicato ma la percezione va cambiata: meno plastica è meglio.