Padova, estate 1678. È la mattina del 25 giugno e sul verbale ufficiale del sacro Collegio dell’Università patavina dove vengono registrate in latino le discussioni delle lauree viene apposto un nome di donna “Helena Lucretia Cornaro Piscopia” e per la prima volta nella Storia è declinata al femminile la formula di proclamazione “Philisophiae Magistra et Doctrix acclamata fuit”. La notizia che una donna quel giorno si sarebbe laureata aveva incuriosito studenti, viaggiatori, dame, nobili. Le cronache, anni dopo, sosterranno più di mille persone, tanto che invece della solita sala dell’Episcopato, quella mattina di gran fretta l’evento viene spostato all’interno della Cappella della Beata Vergine del vicino Duomo.
La giovane Elena, i capelli acconciati in un semplice hurluberlu che fa risaltare i boccoli e l’abito scuro e ricco in broccato, è pronta. Come vuole la prassi, il giorno prima sono stati estratti tre argomenti (venivano sorteggiati tre bossoli in un grande paniere che ne conteneva cinquecento, sostituiti poi ogni cinque anni): si tratta di Aristotele. Elena ha trentadue anni, è sicura di sé seppure consapevole di essere di fronte a un appuntamento con la Storia. Prima di lei, nessuna donna si è mai sottoposta a quell’esame. Alle sue spalle, tutt’intorno, e i suoi stessi esaminatori di fronte sentono da tempo riecheggiare il suo nome. Da quasi cinque anni viene invitata nelle accademie per le dispute (un divertissement da repubblica delle lettere: dato un argomento, due intellettuali si sfidano a suon di requisitorie). A partire dal 1669 è invitata all’Accademia dei Ricoverati di Padova, degli Intronati di Siena, degli Infecondi di Roma. Venivano da tutta Europa per interrogarla e la guardavano con uno stupore offensivo, come increduli che una donna – inaudito – parlasse. Lei non avrebbe mai iniziato, non le piace sentirsi una memorabilia da wunderkammer, ma capisce che il padre vuole riacquisire grazie a lei il prestigio sociale perduto. Eh già, perché il nobile Giovanni Battista Cornaro, procuratore di San Marco, aveva sposato per amore la popolana Zanetta Boni, cosa che ha appannato il lignaggio.
Quella mattina, la guardano tutti come in attesa di una rovina. Come sarebbero contenti a casa se fallisse, se dimostrasse di aver chiesto troppo, dato che in definitiva è solo una donna. Una cosa che non potrà dimenticare – oltre a chi le consigliava di ammonacarsi, se proprio disegnava maritarsi con un buon partito e sfornare qualche pargolo blasonato – è come il vescovo Gregorio Barbarico, allora rettore dell’Università di Padova, si era opposto alla richiesta incrociata di suo padre e del suo mentore, il noto scienziato Carlo Rinaldini, di farla laureare. Il vescovo la riteneva degna di ogni riconoscimento accademico, la sua fama di sapiente era cosa nota, ma s’era affrettato ad aggiungere “per quanto non ostasse il sesso che da solo impedisce l’ascendere alle cattedre”. E data l’insistenza del padre che non si placava, a un amico comune (il vescovo Giustiniano) Barbarigo scrive “È uno sproposito dottorar una donna”. Salvo poi, dopo due anni di pressioni, piegarsi. Elena può laurearsi in filosofia, ma non in teologia come desiderava per via della sua fede. Dopo i vent’anni, infatti, Elena si è fatta oblata benedettina e sotto l’abito indossa sempre lo scapolare. Ha rifiutato ogni proposta di matrimonio e si è votata alla castità.
Quella mattina, l’argomento della discussione non la spaventa grazie alla sua consacrazione totale al sapere. A partire dai dieci anni, aveva potuto attingere alla ricchissima biblioteca della magione veneziana della sua famiglia che affaccia sul Rialto, dove era passato secoli addietro anche Galileo Galilei. Ed era stata edotta in latino, greco, ebraico, francese, dialettica, filosofia, matematica dai migliori intellettuali: Venezia nel ’600 è un cuore pulsante cultura, vi si stampano più libri che a Parigi e, grazie a un editto del 1603, la Biblioteca centrale possiede ogni libro che viene stampato. Ma alle donne, cui si chiede solo di esser belle e accondiscendenti, l’immensa biblioteca – che apre al pubblico tre mattine a settimana – non concede l’ingresso. Elena ha bene a mente la definizione di donna che solo tre anni prima, il medico personale del Re Sole, Marin Cureau de La Chambre nel libro Del conoscere gli uomini dà della donna (mutuandola da Plutarco): “fredda” (cioè debole) e “umida” (cioè infedele).
Alla fine della discussione, conclusasi senza inciampo alcuno, il plauso è unanime. Elena riceve le insegne dottorali: il libro, simbolo della dottrina (che però in ogni ritratto è raffigurato chiuso, perché non insegnerà mai), l’anello che indica le nozze con la scienza, la corona d’alloro per il trionfo e la cappa d’ermellino in segno della dignità dottorale. Seguirà a studiare con il medesimo fervore fino al 1684, quando a soli 38 anni si spegne. Dopo la sua morte, i sapienti del tempo (tutti uomini) si affrettano a descriverla quale un portento della natura, un angelo sceso in terra. Più che una beatificazione, una de-umanizzazione necessaria a dimenticare il fatto che Elena fu soprattutto e semplicemente (si fa per dire) una donna.
Oggi la sua eredità è raccolta dall’Università di Padova attraverso il Centro di Ateneo Elena Cornaro per i saperi, le culture e le politiche di genere e un Premio giunto alla seconda edizione conferito a laureati o laureate la cui attività costituisca una forza di cambiamento verso la piena espressione del potenziale delle donne.