Il terzo volume dell’autobiografia di Toni Negri, scritta con Girolamo De Michele, non poteva che arrivare alla vecchiaia. E alla morte. Dopo il racconto della giovinezza e dei primi anni 70, quello del processo e dell’esilio, con il terzo libro, il filosofo e militante comunista padovano racconta il ritorno in Italia dopo la fuga a Parigi, la disponibilità a completare la pena – alla fine farà undici anni di carcere comprese le pene alternative al carcere – la fase della notorietà mondiale.
Curiosa storia quella di Negri. Tra i pochi filosofi italiani accreditati all’estero, uno dei due principali dirigenti del movimento degli anni 70, l’altro è Adriano Sofri, ad aver scontato il carcere – ma i “liberals” di Lotta continua si dichiarano innocenti, “io no” – il suo racconto si snoda tra camorristi “autorevoli e gioviali”, matti che dichiarano “io mi amo”, sguardi sui fiori nel cortile di Rebibbia, il ritrovo del terzo o quarto amore della sua vita, e poi l’esplosione teorica con la pubblicazione di Empire, libro tradotto in tutto il mondo e che incrocia felicemente il movimento no global.
Negri, del resto, rivendica sempre la fusione tra l’attività teorica e la sua vita militante, la voglia costante di fare riviste, anche quando falliscono, non solo con intellettuali e filosofi ma con giovani militanti. Racconta la politica italiana degli ultimi trent’anni da un punto di vista originale, si incrocia alla vita dei movimenti e alla sinistra detta “radicale” (compresa la “compassione” per un dirigente come Fausto Bertinotti). Ribadendo la fiducia nella “spontaneità” e nell’“ilarità, non cede però ai bilanci, quanto alla voglia di “resurrezione” dedicando le sue pagine “a quegli uomini e donne virtuosi che nell’arte della sovversione mi hanno preceduto e a quelli che seguiranno”.