È entrato nell’Esercito, da sottufficiale, nel 1984, da poco più di un anno è in pensione con il grado di tenente colonnello. “Sono un soldato che ha sempre tenuto i piedi nel fango”, dice Fabio Filomeni nella sua bella casa su una collina toscana. Incursore del 9° Reggimento d’assalto paracadutisti “Col Moschin”, missioni in Somalia, Bosnia, Kosovo, Albania, Iraq. “Mi manca solo l’Afghanistan”. Croce di bronzo in Bosnia. E negli ultimi anni una carriera da Responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp), tutela della sicurezza sul lavoro, “la mia seconda fase professionale”. Al tempo dei tumori e dell’uranio impoverito: “Ho perso colleghi, commilitoni. Ad altri sono stati asportati i reni e i medici hanno detto che non avevano mai visto una cosa del genere: un insieme di particelle metalliche e nanoparticelle che andavano a rivestire e coprire questi organi. Sono quelle che si liberano una volta che il proiettile all’uranio impoverito impatta sulle corazzature metalliche, c’è una vasta letteratura scientifica…”.
Alla fine del 2017 il generale Roberto Vannacci, comandante della missione in Iraq, la chiama.
L’avevo conosciuto da tenente, ho tenuto i piedi nel fango anche con lui. Poi, quando è arrivato a comandare il Nono, sono stato il suo Rspp.
Vannacci chiama perché, per la prima volta, gli Stati Maggiori hanno deciso di nominare datori di lavoro i comandanti delle missioni. Come in un’azienda deve fare la valutazione dei rischi e assumere le determinazioni per ridurli. Che situazione trova, nel maggio 2018, a Baghdad?
Trovo un datore di lavoro che di fatto non aveva alcun potere decisionale organizzativo e di spesa per far fronte agli obblighi di legge. Non aveva neanche la possibilità di organizzarsi il sistema di gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro come è previsto dalla 81/2008, non poteva nominare il medico competente, né gli addetti al servizio prevenzione e protezione. Sa qual era il servizio di prevenzione in un territorio di 80 mila chilometri quadrati con 11 basi sparse? Era solo il sottoscritto. E gli ordini li dirama il Comando superiore, il Comando operativo interforze, il Coi. Solo il Coi poteva fare i campionamenti sul suolo per quanto riguarda ad esempio l’uranio impoverito. Il generale Vannacci non aveva questi poteri. Ma nemmeno poteva omettere la pericolosità di questo elemento. In Iraq sono state impiegate da 300 a 1.000 tonnellate di munizionamento con uranio impoverito.
Avevate dati sulla presenza di uranio impoverito e metalli pesanti nelle vostre basi, alcune delle quali, come la sede del comando italiano a Baghdad, erano state bombardate con quel materiale?
No. Il generale Vannacci aveva chiesto l’intervento del Centro studi strategici di San Piero a Grado di Pisa. Il personale è venuto coi tempi dati dai comandi superiori, in ritardo, ha fatto queste rilevazioni, ma solo nell’area di Baghdad. Non è dato sapere le risultanze.
Dicono che le guerre sono finite da un pezzo, se il rischio c’era non c’è più.
Non abbiamo elementi per dire che non c’è rischio uranio impoverito. Si lascia la responsabilità a un comandante nominato datore di lavoro. In ambito civile diremmo scaricabarile, in ambito militare io dico fuoco amico. Armiamoci e partite.
Questa scelta nel 2017 può essere collegata al lavoro della Commissione di inchiesta parlamentare guidata dall’onorevole Gian Piero Scanu?
Lei credo abbia messo il dito nella piaga. La Commissione ha visto chiare deficienze che sarebbero state eliminabili se a ogni livello fosse stato fatto il necessario: una raccolta dettagliata delle informazioni, collaborazione tra nazioni. Quando sono andato giù mi hanno detto che avrei trovato altro personale, ma non c’era nessuno formato, solo in un secondo momento si è liberato un unico addetto a Mosul.
È vero che non c’era nemmeno un medico competente con i requisiti previsti?
È allucinante. Al generale Vannacci venne ordinato di nominare un medico che aveva a Mosul. Ma Vannucci era a Baghdad. E il medico di Erbil, dove ero io, non aveva i requisiti. Vannacci non ha eseguito. Ne avrebbe dovuto pagare le conseguenze, ma a quanto ne so non gli è stato fatto niente.
Cosa avete potuto fare per proteggere il personale?
La principale forma di prevenzione e protezione in questi casi è limitare il più possibile l’esposizione del lavoratore. Il generale Vannacci ha più volte insistito con il Coi affinché i limiti dell’impiego del personale fossero massimo di 6 mesi. C’erano persone che stavano 9 o 10 mesi, un anno, perché mancavano i visti, i voli. Ma anche questa misura di mitigazione del rischio non era nei poteri del generale, era nei poteri del Coi.
L’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, allora a capo del Coi, ha detto alla Commissione d’inchiesta che le missioni duravano in media 4 mesi. Non è così?
Non posso contestare quello che ha detto un mio superiore. Le dico quello che ho visto di persona.
Cos’altro avete potuto fare in relazione all’uranio impoverito?
Abbiamo fatto formazione, ma sul campo, quando sarebbe dovuto avvenire prima. Il problema non è solo l’uranio, ma le nanoparticelle. L’Iraq è arido, piove poco, non è la Bosnia. Possono esserci fenomeni di risospensione delle particelle depositate. Una disposizione che avevo dato era di cercare di sollevare meno polveri possibile, anche con gli automezzi. Un’altra precauzione è coprirsi le vie aeree con mascherine e foulard, con sciarpe.
Il generale Vannacci ha fatto un esposto, i magistrati potrebbero chiamarla.
Nessun problema. Direi solo la verità.
Prima e dopo Vannacci, altri comandanti in Iraq, prima senza nomina a datore e poi con la nomina, hanno fatto la valutazione dei rischi e immagino abbiano escluso rischi particolari. Sottovalutano?
Non posso rispondere per altri.
Non c’è un’opacità delle Forze armate sui pericoli legati all’uranio?
Ho ravvisato zone d’ombra. E ho ricevuto pressioni per cercare di ammorbidire le posizioni del generale Vannacci. Nelle migliori forme, a titolo di cortesia. Nessuna minaccia. Però queste pressioni le ho ricevute telefonicamente da un ufficiale del Comando superiore.
Vogliamo chiarire che lei non ce l’ha con le Forze armate?
No, sono grato all’Esercito per tutto quello che mi ha insegnato. Ho avuto modo di esprimermi al meglio e avuto riconoscimenti che mi hanno consentito di andare in pensione con un grado di tenente colonnello. Ma sono stato anche orgogliosamente sottufficiale. Non ce l’ho assolutamente con l’Esercito. Ma dentro l’Esercito ci sono persone che non lavorano tutte per la stessa causa.
(il video dell’intervista completa oggi su ilfattoquotidiano.it)