È un caso giudiziario che deciderà fin dove può spingersi il giornalismo nel mondo occidentale. Può un giornalista rivelare segreti di Stato, quando questi coprono gravissime violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e torture contro intere popolazioni? Il caso Julian Assange e WikiLeaks è questo. E il tentativo dell’Amministrazione Trump di imprigionarlo per 175 anni, per aver pubblicato documenti veri e nel pubblico interesse, non ha precedenti nella Storia degli Stati Uniti. Questa settimana, il Dipartimento della Giustizia Usa ha emesso un nuovo atto di incriminazione: la notizia ha ricevuto scarsissima attenzione.
Da oltre un anno il fondatore di WikiLeaks è detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, in attesa che il processo di estradizione, in corso, decida la sua sorte. Una sola cosa è certa: dal 2010, quando WikiLeaks ha rivelato i documenti segreti del governo Usa, Assange non ha più conosciuto la libertà. Vani sono stati i tentativi di intervento delle Nazioni unite, come conferma al Fatto l’inviato speciale Onu contro la tortura, Nils Melzer: “Il 9 maggio del 2019, ho condotto una visita di quattro ore a Assange, nella prigione di Belmarsh, accompagnato da due medici esperti nell’esame di vittime della tortura. Assange mostrava tutti i sintomi tipici di chi è soggetto a torture psicologiche prolungate. Nonostante i miei ripetuti interventi attraverso canali diplomatici ufficiali – e in violazione a suoi obblighi internazionali – il governo inglese ha sistematicamente rifiutato di indagare sulle mie accuse o di stabilire un dialogo costruttivo, come richiede il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu”. Il nuovo atto di incriminazione non aggiunge capi di imputazione, ma cerca di implicare Assange in attività di hackeraggio nel lontano 2011. E anche se non vengono nominati, nel documento si fa riferimento a due persone che, a titolo diverso, hanno collaborato con WikiLeaks: Sarah Harrison, la giornalista inglese che nel 2013 volò ad Hong Kong per aiutare Edward Snowden, e l’americano Jake Appelbaum, giornalista ed esperto di privacy. Al momento non è chiaro se le autorità Usa si preparino a incriminare anche loro. “La nuova incriminazione sembra un tentativo gratuito di dipingere Assange come ‘un hacker’, o come qualcuno associato agli ‘hacker’, invece che un giornalista”, spiega al Fatto l’avvocato americano Barry Pollack che fa parte del team legale di Assange. “Gli sforzi di dipingerlo come qualcosa di diverso da un giornalista non possono offuscare il fatto che è incriminato per le sue pubblicazioni e queste accuse sono una minaccia ai giornalisti di tutto il mondo e al diritto dell’opinione pubblica di sapere”. Kristinn Hrafnsson, attuale direttore di WikiLeaks, fa dichiarazioni altrettanto nette al Fatto: “È un ovvio tentativo di distrarre dalle vere accuse: punirlo per aver ricevuto e pubblicato documenti che rivelano i crimini e gli abusi degli Stati Uniti”.
La nuova incriminazione arriva in un momento in cui la salute di Assange è più in bilico che mai, anche per il rischio Covid. Questa settimana oltre duecento medici, riuniti nell’organizzazione Doctors for Assange, hanno denunciato la grave situazione in una nuova lettera alla più prestigiosa pubblicazione medica del mondo: The Lancet. “Siamo professionalmente ed eticamente tenuti a prevenire, fermare e denunciare atti di tortura dovunque essi accadano, non importa il rischio che corriamo”, dichiara al nostro giornale Doctors for Assange, “per questo teniamo fede a questo obbligo e denunciamo le condizioni in cui si trova Assange”.