Ricordare il concerto di Bob Marley a San Siro, 40 anni dopo, ha scatenato due opposte reazioni. Da una parte la nostalgia, dall’altra la condanna per una fase di ideologia e violenza. Entrambe le reazioni dimostrano che quello del 27 giugno 1980 a Milano non fu solo un concerto, non fu solo musica. Fu il precipitare in un evento dello spirito del tempo, l’incrociarsi di cultura, società, politica. A suo modo, storia.
Quella giornata di giugno fu uno spartiacque tra gli anni Settanta dell’impegno politico e gli Ottanta del business. Allora la nostalgia non basta a raccontarla, perché la nostalgia offusca il ricordo, addolcito dal fatto che si aveva vent’anni. Ma neanche la condanna per quei tempi aspri e forti aiuta a capire davvero. Così devo esprimere il mio sommesso disaccordo per il racconto che ne ha fatto Alberto Negri, che pure è un maestro di giornalismo e sa raccontare i conflitti del mondo come nessuno.
Negri ricorda quel giorno di San Siro come “una pausa di serenità dopo tanto piombo e violenza”. Non solo il primo concerto in un grande stadio, ma anche il primo che si svolse tranquillo, senza incidenti di rilievo, dopo quelli che “erano stati anni caldi, anni di piombo, anche per la musica: nel ’77 il concerto di Santana al Vigorelli era terminato con il palco in fiamme bersagliato dalle molotov. Messi sotto processo dagli autoriduttori, erano dovuti scappare dalla scena Francesco De Gregori e anche Lou Reed. Sirene, polizia, lacrimogeni e grandi fughe per scansare botte da orbi: era questa la colonna sonora”. Tutto vero.
“Essere un ventenne a quell’epoca”, continua Negri, “richiedeva preparazione fisica, prontezza di riflessi e una certa fortuna. Andavi a un concerto e rischiavi di finire dentro a una bolgia infernale, al liceo se non stavi attento qualcuno di un gruppo opposto ti tirava una sprangata in testa, attraversavi una strada e ti trovavi stritolato in uno scontro tra polizia e manifestanti. Volavano sampietrini come in una intifada palestinese. Ogni giorno c’era un morto, un ferito, per terrorismo, scontri politici, regolamenti di conti”. Meno male, suggerisce Negri, che a porre fine a quegli anni di piombo & musica arrivò Marley, con il suo ritmo ipnotico, le ragazze che si toglievano il reggiseno, 80mila ragazzi che ballavano e cantavano, invece di tirare pietre.
Tutto vero. Tutto bello. Eppure io non riesco a contrapporre il prima e il dopo, i Settanta e gli Ottanta. Il prima non era affatto quel tunnel cupo di violenza che molti oggi raccontano: era anche un grande, composito, contraddittorio movimento di massa, era il protagonismo degli studenti, era l’orgoglio degli operai, era la speranza di un grande cambiamento. L’illusione era quella di cambiare il mondo: un vasto programma.
Ma la realtà era la sperimentazione di nuove pratiche di vita e di nuovi rapporti di potere, scardinando le obbedienze, sovvertendo le tradizioni, prendendo finalmente la parola, non più riservata al capo, al padrone, al professore, al prete. La storia è sempre passione e sangue, non esiste cambiamento pulito ed educato, eppure nei Settanta l’Italia cambiò come non era mai successo prima, dalla Resistenza a quel momento. Dentro quel movimento c’erano anche i fenomeni – l’iperideologizzazione, la violenza – che siamo contenti siano stati sconfitti, ma non li ricordo affatto come anni plumbei, erano vivaci, stimolanti, divertenti.
E gli Ottanta? Anche il dopo non fu solamente ricomposizione dell’ordine violato, sollievo per la fine delle scempiaggini violente dei Settanta. Fu calo del desiderio, rinuncia alle passioni, ritorno alle gerarchie dei poteri, affermazione di un’ideologia – quella della produzione, delle compatibilità e del successo – non meno feroce di quella della rivoluzione.
Ma qui il reggae di Marley diventa solo un’eco lontana, una colonna sonora frusciante.