È dimostrato che il 5G è un grande pericolo per la salute, che non pone alcun rischio, che le antenne 5G sono correlate ai focolai di Covid. Che porterà benefici enormi e quindi bisogna mandare giù il rospo degli eventuali rischi. Anzi no, vale il principio di precauzione: senza dati certi sugli effetti sulla salute umana ci vuole una moratoria. Ecco: quale di queste affermazioni è vera? Probabilmente nessuna completamente, escludendo le panzane totali come la correlazione tra antenne 5G e Covid. I rischi, certo, ci sono, ma giustificano il livello di isteria? No, se si guarda agli studi scientifici indipendenti.
Intantoesistono tre tipi di 5G: quello che opera alla frequenza di 700 megahertz, quello a 3.600 e l’ultimo, che genera i maggiori timori, a 24mila megahertz, una velocità 50 volte superiore all’attuale 4G europeo. Per il 5G, in Italia, la frequenza che l’utente medio userà di più sarà quella dei 3.600. A questo gruppo andrà il 66% delle frequenze. Un 30% circa andrà a quella di 700 megahertz e il restante alle cosiddette onde millimetriche. I primi due gruppi rientrano nelle famiglie delle onde elettromagnetiche già in uso per il 4G, su cui esistono migliaia di studi sui ratti e sull’uomo, tra cui quello dell’Istituto Ramazzini di Bologna, simbolo di eccellenza e indipendenza nel campo della ricerca sulla relazione tra tumori e ambiente. “Oltre al nostro, altri due grandi studi internazionali confermano che c’è un rischio biologico, da esposizione a campi elettromagnetici con energia superiore a 25 volt per metro – spiega al Fatto Fiorella Belpoggi, epidemiologa, direttrice di ricerca del Ramazzini – come l’aumento statisticamente rilevante del numero di tumori, rarissimi scwhannomi, al cervello e al cuore”. Fino al 2011, in Italia c’era una delle leggi più restrittive d’Europa, spiega. Contemplava cioè la protezione anche del rischio biologico, e non solo di quello termico che è l’unico riconosciuto dalla Commissione Internazionale per la Protezione dalla Radiazione non ionizzante (Icnirp). La legge italiana prevedeva cioè di non superare il limite dei 6 volt al metro sulla media di valori raggiunti ogni 6 minuti nelle ore di maggior traffico telefonico, contro i 61 V/m fissati dalla Comunità europea. Ma nel 2011, il Governo Monti modificò il limite, assumendo come valore di esposizione limite la media dei valori misurati in 24 ore e non più in 6 minuti. Tradotto: i picchi diurni possono tranquillamente sforare il valore di sicurezza di 25 volt metro stabilito dal Ramazzini. E non esiste controllo, che invece c’è, per dire, per le emissioni di particolato sottile. Nonostante questo, la legge italiana resta una delle migliori e se rispettata, non comporterà nulla di nuovo per le prime due famiglie di frequenze.
Il gruppo delle onde millimentriche è quello veramente rivoluzionario. Consentirà di trasferire dati alla velocità di mille megabits per secondo permettendo imprese impensabili, come la chirurgia a distanza o l’agricoltura di altissima precisione. Gli studi sull’esposizione a queste onde ancora non ci sono, è vero. “Il punto non è la frequenza – spiega la Belpoggi – ma il campo di emissione dell’antenna, che non deve superare i 6 volt per metro”. E per non sforare, servono tantissime antenne posizionate in modo molto fitto. “Se la legge viene rispettata, il rischio può essere governato come per il 4G”. Se invece si vuole evitare di tener conto del rischio biologico, allora bastano meno antenne. E meno soldi. É ciò che invoca il piano della task force guidata da Vittorio Colao: la necessità di “adeguare i livelli di emissione in Italia ai valori europei” così da alzare le soglie. “Per tutelare i cittadini, i sindaci possono pretendere che vengano installate centraline per il monitoraggio delle emissioni”. Rassicurerebbe tutti, garantirebbe il rispetto delle regole e fornirebbe la certezza di essere protetti, anche dal 5G.