Sebbene l’immaginario letterario e cinematografico ci abbia abituati a figurarci l’antropologo come un uomo coraggioso in viaggio verso i luoghi remoti del mondo alla scoperta della diversità, magari a bordo di una piroga mentre guada un corso d’acqua dimenticato persino dalla mappa geografica più particolareggiata, la realtà ci restituisce un’altra storia: quella di una giovane donna, dai capelli ricci biondi e dal sorriso disinvolto. Antropologa, col sangue di mezza Europa nelle vene, e la sfrontatezza di perseguire una delle battaglie più audaci che, a suo dire, le racchiude tutte: difendere i diritti dei popoli indigeni. Fiore Longo, 33 anni, nata a Buenos Aires, discendente di italiani, spagnoli e francesi, di storie ne ha da raccontare tante.
Il percorso che l’ha portata a lavorare come antropologa per Survival International, il movimento mondiale in difesa dei diritti dei popoli originari, è fitto di aneddoti che avrebbero probabilmente sedotto persino la penna di Bruce Chatwin, se solo i tempi fossero coincisi. La sua infanzia, con il regime di Pinochet agli sgoccioli, è trascorsa in un contesto familiare di sinistra. Ha impiegato poco a comprendere che l’idiotismo “gli argentini sono figli delle barche” non fosse vero. La storia raccontata dai vincitori era diversa dalla realtà. Così il primo impeto di ribellione al “processo di invisibilizzazione dei popoli” ha tracimato un giorno a scuola, durante la festa dell’indipendenza, quando è salita sul palco e ha detto che non c’era nulla da festeggiare. “Mi sono interessata ai popoli indigeni – spiega – perché la lotta per i loro diritti condensa la lotta per le cose più importanti della mia vita, la giustizia sociale, un ambiente sano, il rispetto per la diversità”.
Una volta emigrata ha studiato antropologia, prima a Roma e poi a Bordeaux; fino a quando non è tornata in America Latina, per approfondire l’antropologia medica in un ospedale interculturale in Araucanía, in Cile, assieme ai Mapuche. “Mi ha colpito la loro forza, conoscevano il diritto internazionale – dice –, è stato scioccante vedere come si possa vivere da sempre nella resistenza”. Al rientro ha provato a lavorare nella cooperazione internazionale. Arrivata in Costa D’Avorio, però, si è resa conto che “andare lì per dire alle persone cosa fare” non era nelle sue corde. Ha pensato addirittura di lasciar perdere, quando un giorno si è imbattuta in Survival International e ha scoperto di non essere l’unica a desiderare “di cambiare l’opinione pubblica” e non il diverso da sé. È iniziata così la sua carriera da antropologa per “decolonizzare lo sguardo che portiamo sugli altri”.
Oggi affronta lunghi viaggi nelle aree del Pianeta più remote. Prende aerei, treni, autobus, moto, piroghe. Impiega giorni, attraversa la foresta di cui non ha mai smesso di avere paura, guada i fiumi con la sola speranza che l’appuntamento preso telefonicamente, fintanto che ha copertura, non venga disatteso. Talvolta le capita pure di ammalarsi o di essere punta da insetti mai visti prima. È cosi che ha raggiunto l’India, la Colombia, il Congo. Zaino in spalla e fotografie della sua famiglia alla mano. Quando arriva, per prima cosa, le mostra. Dorme per terra, nella capanne, in tenda. Mangia le conserve che si è portata e, quando glielo offrono, prova il cibo delle comunità che la ospitano. Coccodrilli, antilopi, scimmie, gazzelle, pipistrelli, sangue di mucca. Partecipa ai riti sciamanici. Siede con loro attorno al fuoco. E danza durante le feste. Soprattutto ascolta e scrive sul suo taccuino storie di abusi, violenze, torture.
Nella regione dell’Orinoco ha incontrato i Nukak, uno dei 65 popoli originari colombiani cacciati dalle loro terre ancestrali. In India, le tribù che vivono nelle riserve delle tigri. In Congo, i Pigmei. Fiore Longo, oggi direttrice della sede parigina di Survival e della campagna per la protezione della natura, è colei che ha denunciato alle Nazioni Unite e all’Unione Europea le gravi violazioni commesse dai guardaparchi pagati dal Wwf nei confronti delle comunità Baka, tanto da convincerli a sospendere i finanziamenti. “La lotta per i popoli indigeni – racconta – non è finalizzata a difendere l’esistenza di quel popolo o di un altro, ma è la lotta in difesa della diversità, della possibilità che ci siano altre storie”. Storie diverse, come la sua.