Sono passati quaranta anni. L’infarto al Dorchester di Londra, il trasporto al Middlesex Hospital, dove spira poco dopo la mezzanotte del 24 luglio 1980.
Peter Sellers ha solo cinquantaquattro anni, la sua è una vita per il cinema, e una vita travagliata. Il destino nel nome: In arte Peter Sellers, come vuole l’unica biografia italiana, di Andrea Ciaffaroni per Sagoma Editore, o, dovremmo dire, “In morte Peter Sellers”. Quando viene alla luce, l’8 settembre del 1925 a Southsea, Portsmouth, i genitori Bill e Peg gli affibbiano due nomi, Richard Henry. Non ne useranno nessuno, però, preferendo chiamarlo Peter, come il primogenito morto alla nascita.
Peter dunque cresce con un nome non suo, per giunta, il nome di un defunto. Genio, della comicità e non solo, viziato ab origine, asfissiato dalla madre, assottigliato a immagine e somiglianza dei suoi personaggi, senza storia, sempre colti in medias res: “Sellers – osserva il critico Alberto Crespi nella prefazione – è un comico liscio come uno specchio. Non c’è alcuna profondità nelle sue maschere: c’è invece una straordinaria ricchezza di comportamenti, di tic fisici e linguistici, una labirintica costruzione del personaggio che non presuppone minimamente una persona”. Non è forse l’artificio, e il simulacro, la cifra delle sue interpretazioni, l’ispettore Clouseau ne La Pantera Rosa, l’improbabile Bakshi di Hollywood Party, l’equivoco commediografo Clare Quilty di Lolita e, ovviamente, il Dr. Strangelove dell’omonimo capolavoro di Stanley Kubrick, di cui il compianto Robin Williams avrebbe sentenziato “per quanto la comicità possa fare progressi, niente è ai livelli del Dr. Stranamore”? Deleuziana immagine-movimento, uguale e contraria a Buster Keaton, Sellers è cinetica impazienza, insoddisfazione smodata, insofferenza ad libitum: “Solo due cose riuscivano a tenerlo sul pezzo. La prima: riuscire a girare a ritmi serrati; questo lo aiutava a scacciare la noia. La seconda: essere a corto di soldi e alla disperata ricerca di un film erano fattori decisivi per tenerlo in qualche modo ‘a galla’ durante le riprese”.
Eppure, gli riesce quel che altri, tutti, si sognano: per esempio, farsi aspettare sotto casa da Kubrick, fumare erba con i Beatles, mandare a quel paese, ricambiato, Billy Wilder. La proverbiale sregolatezza lo marcò stretto per mezzo secolo, nondimeno, “sacrificando sé stesso e la propria identità, rivoluzionò l’umorismo britannico e riscrisse anche la parola ‘recitazione’, dandogli un significato ancora più ampio e radicale. Aprì le porte ad attori come Jim Carrey e Robin Williams; mostrò a loro e al pubblico, suo malgrado, come fosse possibile uscire dalla propria identità e diventare letteralmente qualcun altro”. Pericoloso, ma il gioco valeva la candela, Kubrick lo vuole in Lolita, lo rivuole in Dr. Stranamore, dove incassa tre personaggi e – fatto più unico che raro per Stanley – libertà creativa, e prima lo fa lungamente penare: “Fu costretto a pregarlo in ginocchio. Peter non voleva lasciare l’Inghilterra per seguire la produzione. (…) Così Kubrick cominciò ad appostarsi davanti alla sua casa di Hampstead, aspettandolo la sera tardi quando Sellers tornava dai suoi bagordi notturni”. Sul set, osserverà K., sperimenta “uno ‘stato di estasi comica’, prima che le energie lo lasciassero di nuovo nel silenzio e nella disperazione”, e si prova demiurgo: Stanley gli suggerisce un guanto nero, “che avrebbe avuto un effetto alquanto sinistro su un uomo in carrozzina”, Peter lo indossa, fa di quell’arto pensato inerte “un braccio ancora nazista”, lo alza in aria e gridando “Heil Hitler!” si consegna alla Storia. Con un altro mostro sacro, Wilder, gli va decisamente peggio: il cineasta, Dean Martin, Kim Novak, e Felicia Farr rispediscono al mittente il suo “perfide faine”; lui compra una pagina su Variety per sfatare l’immagine dell’“inglesuccio ingrato e infido che non aveva fatto altro che approfittare di Hollywood parlando alle sue spalle”; morale della favola, la wilderiana Vita privata di Sherlock Holmes non lo annovererà quale Watson.
Gavetta comica nelle trincee della Seconda Guerra Mondiale, battesimo di fuoco, insieme a Spike Milligan e Harry Secombe, nello storico show radiofonico The Goon Show (1951-1960), Sellers troverà la stima, se non l’idolatria, dei Monty Python, “i piatti scagliati contro il muro o le scenate negli alberghi di Roma”, l’hashish con John Lennon: “Ricordi quando ti ho passato quell’erba a Piccadilly? – Un trip allucinante, davvero. Acapulco gold, giusto? Fantastica”.
Quarant’anni dopo le sue maschere sono intatte, ma lui continua a sfuggire dal ritratto: associato in culla alla morte, s’è dato alla vita eterna dell’arte. Forte di un segreto, che il regista della Pantera Rosa Blake Edwards aveva mutuato dallo scopritore di Stanlio & Ollio Leo McCarey e gli aveva cucito addosso: “Tu hai quel dono che io chiamo la capacità di rompere la barriera del dolore. Ti va male, ne ridi e col tuo riso sei in grado di aiutare la gente”. Ma non sé stesso.