“C’è un limite anche per un Paese come il mio, che è in gravi condizioni, che conta migliaia e migliaia di morti sulle spalle. Io questi morti li devo onorare, con dignità”.
È mezzanotte quando Giuseppe Conte pronuncia forse il discorso più difficile della sua vita politica, peraltro breve. Lo fa davanti ai 26 colleghi del Consiglio europeo, in un clima teso dalle estenuanti trattative di tre giorni, la sera tra domenica e lunedì. “Nonostante il mio sia uno dei Paesi più duramente colpiti dalla pandemia – spiega – dico fermiamoci un attimo. Assumiamoci le nostre responsabilità. Qualcuno pensa di acquisire nell’immediato maggiore consenso sul piano interno. Il che è possibile, e io gli faccio gli auguri. Però invito anche a considerare che non solo la storia ci chiederà conto delle decisioni che abbiamo assunto questa sera, 19 luglio 2020. Forse anche quegli stessi cittadini che per una reazione immediata emotiva applaudiranno, dopo un po’ si renderanno conto che quella che sembrava una grande vittoria, nasce da una decisione non accorta, non lungimirante, perché è una decisione che ha contribuito ad affossare il mercato unico, i valori e gli interessi europei, e, infine, la libertà di sognare delle nuove generazioni.”
Le frasi, scelte anche per catturare l’emotività, concludono un discorso in cui si ribadisce tutto il percorso fatto per arrivare a questo vertice: “Siamo stati noi, come Consiglio europeo, a chiedere alla Commissione di lavorare a questo progetto”. In realtà, aggiunge, “a me sembra che le conseguenze socio-economiche che ci apparivano già gravi il 26 marzo, siano oggi ancora più gravi. Quindi se in quel periodo abbiamo fatto quella valutazione, e sempre che qualcuno non l’abbia sottoscritta distrattamente, la valutazione di oggi deve registrare un evidente peggioramento”.
Ma, chiede Conte, “la risposta della Commissione, lo strumento che ci viene proposto è adeguato?”. Ovviamente no, fosse per lui avrebbe messo più soldi sul tavolo perché “le stime economiche sono molto peggiori di quelle di marzo”. La caduta del Pil “è drammatica” ma “dai ragionamenti che ascolto ho però l’impressione che stiamo perdendo di vista la gravità della intera situazione”.
Conte chiama allo scoperto i suoi avversari: “A me non sembra che qualcuno di noi abbia messo sul piatto una proposta alternativa”. Quindi, la difesa dei grants che “non sono elargizioni liberamente disponibili, ma risorse finanziarie che verranno impiegate per investimenti e riforme strutturali, con approvazione degli organi comunitari e verifiche e controlli”. Tutto questo servirà “non certo ad arricchire qualche Paese a scapito di altri, ma per garantire quel level playing field che riguarda tutti. Se poi qualcuno non è interessato a recuperare questo level playing field e a proteggere i nostri valori dovrebbe cortesemente alzarsi e allontanarsi”.
Poi l’affondo sul modo di condurre il negoziato “in cui sembra che un paese come l’Italia, la Spagna e tanti altri debbano essere messi in ginocchio – c’è una espressione inglese: arm twisting – col braccio piegati per accettare un punto di caduta che peraltro dopo tre giorni di negoziato non ancora si capisce quale sia. Questa è una impostazione negoziale scorretta, che non intendo accettare”. E per quanto riguarda la governance, “vi immaginate un Consiglio europeo che anziché occuparsi di questioni politiche, di priorità e di indirizzi generali, si mette a controllare gli stati di avanzamento nella realizzazione di un’autostrada”. Ce n’è anche per i rebates, gli sconti che i frugali riescono a ottenere e che “azzoppano la solidarietà, la contrastano, la limitano, mentre il Recovery plan realizza invece lo spirito di solidarietà che noi stessi abbiamo dichiarato di voler perseguire”. Eccole le due idee di Europa che si mettono l’una contro l’altra. A mezzanotte e dieci, Conte dice allora: “Fermiamoci un attimo: a questo punto la proposta sul tavolo la ritengo ultimativa”. Si apre l’ultimo miglio della trattativa.