Patriottici

Il gelato dell’Urss conquista la Russia (ma ora è Nestlé)

Dopo l’inno, il “48 kopeki”

21 Luglio 2020

In Russia c’è una marca di gelati che riproduce i gusti dei “bei vecchi tempi”, quando almeno scorreva molto latte per tutti se non l’arcadico latte e miele. Si chiama “48 kopeek” (“48 kopeki”) perché tanto costava allora il gelato più buono. Allora cioè al tempo in cui i prezzi erano fissi e impressi sulle confezioni se non direttamente sul prodotto, in ogni caso non volatili come oggi, e la Fabbrica n. 8 di Mosca sfornava 125 tonnellate di gelato al giorno.

La produzione di massa del gelato in Urss inizia con l’eskimo negli anni Trenta, secondo una ricetta importata dall’America. L’eskimo nasce in Iowa nel 1920, quando un ragazzino entra nel negozio dell’immigrato danese Christian Nelson ed è indeciso se comprare un gelato o una barretta di cioccolato. L’anno successivo Nelson registra quell’ibrido di desideri dolciari e avvia la vendita, presto imitato in tutto il mondo e favorito dal diffondersi del frigorifero. L’eskimo americano si produce ancora, ma è stato annunciato che cambierà nome perché considerato dai popoli artici come offensivo. Al contrario la Russia lo riscopre in chiave quasi sovranista e nostalgica, se volessimo trovare una sfumatura politica, o semplicemente patriottica. Una strategia di marketing più che altro: “48 kopeek” appartiene infatti alla multinazionale Nestlè.

Nel gelido e famelico ottobre 1944, Winston Churchill partecipò a una conferenza a Mosca con Stalin per decidere le sorti dell’Europa dell’Est dopo la ritirata nazista. Mentre andava in auto al ministero degli Esteri vide una fila di gente sferzata dal freddo. Quando apprese che erano in coda per un gelato disse: “Non potremo mai vincere una nazione che fa la coda per il gelato con questo freddo!”. Quel gelato era l’eskimo.

L’operazione di marketing serve anche per contrastare l’invasione di gelaterie italiane o pseudo italiane che sono ovunque o addirittura il gelato bielorusso che gode di una certa fama perché il dittatore Aleskander Lukašenko avrà tanti difetti, ma da agronomo di formazione passa per uno che tiene alla salubrità del cibo. Iniziata con Putin e con il ritorno al vecchio inno nazionale nel 2000, rottamando quello eltsiniano che nemmeno gli atleti sapevano cantare alle Olimpiadi di Sydney di quell’anno, la rivalutazione del tempo sovietico è ormai ampiamente sdoganata… È già tanto che la statua di Feliks Dzeržinskij non torni davanti alla Lubjanka, la sede del vecchio Kgb.

Dopo avere perso la guerra fredda, anche sul fronte del gelato, i russi, almeno i più anziani, vivono per certi aspetti un “Tempo di seconda mano”, come spiega il titolo del grande libro di Svetlana Aleksievic, un’epoca con valori e regole scelte da altri, ma il passato non solo non si deve buttare, si può in parte riciclare, magari abbellendo un po’. “Le confezioni di gelato sovietico non erano così belle” ricorda Mikhailo Alandarenko, giornalista cresciuto a Mosca che oggi vive a Kiev.

Nell’offerta di 48 kopeek ci sono gusti particolari come “eskimo di Leningrado” e il “tomatnoe” cioè pomodoro, che sembrano anticipare le più eccentriche combinazioni del gelato gourmet e non esistevano. “Se uno trovava del succo di pomodoro in Russia lo usava per metterci la vodka e fare il cocktail Krovovaja Maša, il bloody Mary socialista” ironizza Gian Piero Piretto, autore di diversi studi sulla cultura popolare sovietica, tra cui La vita privata degli oggetti sovietici, dove un capitolo è dedicato al gelato. “Ricordo ai magazzini Gum, sulla piazza Rossa, l’apparizione di una venditrice con la cassetta dei gelati al collo” dice Piretto. “Non aveva neanche bisogno di urlare come il carretto nella canzone di Battisti. In un attimo si era già formata la fila. Io prendevo il batončik ricoperto di nocciole e lo ricordo come una delizia. C’erano poi le caffetterie-gelaterie ma non si trovava facilmente posto. Negli anni 90, dopo la dissoluzione dell’Urss, sono apparse le prime gelaterie pseudo italiane con nomi improbabili tipo Gino Ginelli a San Pietroburgo”.

“48 kopeek” propone un altro classico, come il “plombir”, che si ispira alla ricetta francese raccontata da Balzac in Splendore e miserie delle cortigiane (tipo Malaga per intenderci). Va da sé che “48 kopeek” sia solo un nome perché, se un rublo vale un centesimo di euro, un centesimo di rublo non vale niente. A meno che non siano kopeki storici e risalgano all’anno di fondazione dell’Urss con la scritta: “Proletari di tutto il mondo unitevi”. Nel nome della Nestlè.

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