In quegli anni (anni Cinquanta), c’era una sola edicola per giornali stranieri a Manhattan. Era in Times Square, già allora trafficata da luci, pubblicità, autobus e folla, già allora sede (edificio triangolare e grandi scritte luminose delle ultime notizie) del New York Times. L’edicola la dovevi cercare perché sembrava una capanna di carta costruita da ragazzini, e nascosta dal traffico. Dentro la capanna dovevi trovare, tra pacchi di giornali ancora chiusi o stracciati in parte, in lingue e testate sconosciute, il pacco italiano. Arrivava solo una volta alla settimana, il giovedì, con dentro poche copie di ciascun quotidiano nazionale. Io, torinese mandato a New York da Olivetti, cercavo per prima cosa La Stampa, poi il Corriere della Sera, e – se c’era (non sempre spedivano i settimanali) – Il Mondo, perché mi interessava il mio coetaneo Arbasino. Arbasino c’era. Il suo testo occupava metà del paginone centrale. L’altra metà era un articolo con la mia firma. Lo stupore, ricordo, è stato persino più grande della felicità. Il Mondo aveva pubblicato un articolo che non avevo mai scritto. Riconoscevo una delle mie lettere settimanali a Umberto Eco. Mancava solo il “Caro Umberto” iniziale.
Lo scherzo era semplice per Umberto Eco, che a quel tempo era l’autore, già notato, del poi famosissimo Diario Minimo.
Io gli scrivevo da New York, una o due volte alla settimana. Gli raccontavo l’America vista da un esploratore meravigliato. Lui rispondeva raccontandomi come intanto l’Italia correva perché tutto era nuovo. E sulla busta scriveva “al letterato” (in quanto maniacale scrittore di lettere) per dirmi lo stupore divertito della grande quantità di racconti che continuavo a mandare. Due di quei racconti sono stati fatti leggere da Eco a Calvino, che li ha pubblicati sulla rivista Il Menabò. Questa la presentazione di Eco: “Furio era sempre stato un narratore di vocazione, ma consumava il suo estro nel racconto orale, diretto, cestinando con la severità di chi si crede un dilettante quello che metteva per iscritto. In America, trovandosi nella impossibilità di una comunicazione orale altrettanto sfumata, diede il via libera al suo gusto della scrittura”. Erano strani tempi, visti oggi. Erano tempi in cui grandi narratori come Moravia e Pasolini volevano diventare giornalisti assidui e frequenti per le maggiori testate. Una grande testata (piccolo giornale di grandissimo prestigio, frequentato quasi solo da scrittori) era Il Mondo, diretto da Mario Pannunzio, forse il più grande, in quel ruolo, nel giornalismo italiano dell’epoca. All’avventura emozionante di Times Square sono seguite due lettere. Una di Mario Pannunzio che mi chiedeva (un evento mai più accaduto nella vita) di scrivere articoli più lunghi, in modo da alternare Arbasino e me nel paginone centrale. L’altra di uno scrittore che mi era, e mi è ancora caro, Ottiero Ottieri, l’autore di libri chiave per capire l’Italia fra gli anni Cinquanta e l’inizio aspro e giovane degli anni Sessanta (La Linea Gotica, Donnarumma all’assalto). Nella lettera mi chiedeva di mantenere ben saldo il legame perché, in tempi in cui non esisteva alcuna altra formalità o esame, io avevo superato la barriera e toccava a me tener vivo il rapporto appena creato. Ottieri era di casa nella Bompiani Editore, uno dei due fortini della neo avanguardia (l’altro era Feltrinelli) dove il giovane Eco, che non era ancora in cattedra, era intanto diventato redattore e poi direttore editoriale. Con Ottiero avevo lavorato alla Olivetti nel mio breve periodo italiano e si era stabilito un legame profondo. Sui tavoli del neo direttore, alla Bompiani, Ottiero ha visto le mie lettere a Eco e, secondo una versione affettuosa ma attendibile di Silvana Mauri (la geniale signora Ottieri) la mia lettera-articolo a Il Mondo è stata mandata a Il Mondo da casa Ottieri.
Ma il filo della continua conversazione cartacea con Eco non si è mai interrotto. C’erano due grandi percorsi. Uno era l’arrivo di nuovi personaggi sulla scena, che stavano cambiando Milano, sul versante dello scrivere e del pubblicare. Per esempio l’esordio di Filippini, alla Feltrinelli, dove avviene una vera e propria irruzione di fatti, idee, persone nuove (e intere regioni ancora non colonizzate della cultura contemporanea). Per esempio il balzo in scena di Balestrini, la presenza ininterrotta di Sanguinetti, l’arrivo di Guglielmi e Giuliani, l’apparire e scomparire e ritornare di Goffredo Parise, l’inafferrabile diversità di Manganelli, lo spazio poetico di Pagliarani, l’estrosità inventiva di Pignotti, la guida di Anceschi. E Malerba allegro e inflessibile. Devo a quel reticolato di lettere se, vivendo a New York, ho cominciato a essere parte del Gruppo 63, abbastanza preparato al suo inizio e alle edizioni degli anni seguenti.
E poi del giornale del Gruppo Quindici di cui poi (tornato per un periodo in Italia nel 1965) ho fatto parte attivissima. Intanto per Il Mondo, grazie a quella lettera trasformata in articolo, che ho trovato per caso a Times Square come un dono non atteso sotto un albero di Natale, ho scritto dagli Usa o sugli Usa, una sessantina di articoli, pareggiando quasi con Arbasino.
Ce lo siamo detti un giorno, contenti come bambini, non tanto tempo fa. Ma io non ho svelato il segreto dell’idea, più affettuosa che letteraria, di Eco (o forse di Ottieri), di trasformare una lettera fra tante (raccontavo una conversazione con Eleanor Roosevelt nella vecchia casa di famiglia del presidente ad Hyde Park) nel mio cominciare a fare il giornalista.