Sei aprile del 1967, io trentenne e senza una lira. Per me, e per molti come me, non era l’Italia del boom economico, dell’edonismo, delle feste, della celeberrima Via Veneto con la sua Dolce Vita, ma era l’Italia che ti obbligava a guadagnare ogni giorno un pezzetto di libertà.
Quella mattina, presto, ricevo una telefonata da un amico: “C’è Mick Jagger all’hotel Parco dei Principi”.
“Embè? A me piacciono i Beatles”.
“Vai, probabilmente sarai l’unico a immortalarlo”.
Mi piazzo lì fuori, e dopo poco, credo verso le 11.30, esce proprio lui, mi vede, preparo lo scatto, ma non ho il tempo: mi spinge addosso a un taxi parcheggiato. Sbatto la testa sull’automobile, mentre la macchina fotografica si schianta a terra: in pezzi lei, a pezzi io, non sapevo più come lavorare.
Così chiamo l’avvocato, e dopo due ore, bravissimo lui, riesce a ottenere il sequestro dell’attrezzatura per il concerto della sera. Panico totale tra gli organizzatori. Aspetto ancora un po’, e arriva la telefonata dell’avvocato che in qualche modo, per la mia vita, ha significato un prima e un dopo: “Umbe’, hanno deciso di liquidare la questione: a te danno 2.500 sterline, con me saldano la parcella con altre 800”.
Tre anni dopo so che c’è una festa, una delle tante organizzate a Roma, con il principe Dado Ruspoli protagonista insieme al pappagallo, sempre sulla sua spalla; Jagger ogni tanto tornava a Roma, affascinato dalla nobiltà romana, dalla sua leggerezza, dalla sua disinvoltura, e proprio quella sera me lo ritrovo davanti, non proprio lucidissimo. Appena mi vede alza la mano verso i suoi bodyguard e con un inglese arruffato detta la linea: “Lasciatelo stare, non gli impedite nulla: quello è uno stronzo costoso”.
Alla fine mi ha pure sorriso, io anche: grazie alle sue 2.500 sterline sono riuscito ad aprire il mio primo conto in banca.