“È un martire ed era italiano, come te”. Il 17 gennaio scorso, due settimane dopo l’assassinio del generale Soleimani, il comandante dei Pasdaran, centinaia di migliaia di iraniani hanno invaso la Mosalla di Teheran, una delle moschee più grandi al mondo. Erano otto anni che l’Ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, non guidava la preghiera del venerdì. Ogni metro quadro delle vie intorno alla Grande Moschea era occupato dai fedeli. Ognuno aveva con sé un tappeto da stendere sull’asfalto. Khamenei, durante la predica-comizio, elogiò Soleimani e definì Trump un codardo per aver fatto uccidere il generale. La folla applaudiva e riservava al presidente Usa epiteti che un tempo rivolgeva solo a Saddam Hussein.
In piazza, quel giorno, c’era una parte delle società iraniana. Uomini, donne in chador, vecchi, bambini e poi gli ulema, i dotti musulmani tutti ben vestiti e accompagnati dalle loro famiglie. Queste persone non rappresentano integralmente la società persiana. L’Iran è pieno di cittadini stanchi del potere degli Ayatollah e di imposizioni a cui sono costretti a sottostare. Ma chi ritiene che i milioni in piazza per i funerali di Soleimani siano stati costretti da qualcuno, mente. L’Iran, così come il mondo islamico, è molto più complesso di quanto appaia.
“È un martire ed era italiano, come te” mi disse quel giorno un signore sulla settantina mostrandomi una spilla con l’immagine di Edoardo Agnelli il quale, negli anni ‘80, sembra si sia convertito all’Islam. In Iran c’è chi ritiene che il figlio dell’Avvocato non si sia suicidato ma che sia stato assassinato per impedire che l’impero della Fiat finisse nelle mani di uno sciita. La magistratura italiana, come è noto, archiviò velocemente il caso come suicidio ma questo poco importa a chi cerca di guadagnare qualche spicciolo vendendo gadget con l’immagine del povero Edoardo durante le manifestazioni religiose a Teheran.
Teheran nord è un altro mondo. Più ci si arrampica sulle colline della città e più dal capo delle donne il velo scivola giù trasformandosi in un foulard con il quale proteggersi dal freddo. A Teheran alta il giovedì notte va in scena la “Persia da bere”. Nelle case borghesi, che un tempo appartenevano ai fedelissimi dello Scià, per rimediare una bottiglia di importazione basta contattare via whatsapp un rider di fiducia che arriva in motorino, consegna e va via. Nei party della “Teheran bene” quasi tutti ce l’hanno a morte con il governo islamico e ritengono i sostenitori dell’Ayatollah degli oscurantisti manipolati dal Regime. Le donne vestono come in occidente e andare a vivere a Dubai è il sogno di molti.
Se c’è chi ritiene gli alcolici bevande del demonio c’è anche chi si vanta di avere in dispensa whisky irlandese e chi beve vino che produce da sé, per molti un atto di resistenza, per altri un omaggio alla Storia. La città di Shiraz, culla della cultura persiana, oltre che per le moschee e i caravanserragli che per secoli hanno accolto le carovane dei mercanti che percorrevano la Via della Seta, è celebre per i suoi vigneti e lo Shiraz, diffuso in tutto il mondo, è un vitigno originario proprio dell’Iran centrale.
Questa complessità della società persiana viene volutamente insabbiata perché la narrazione occidentale, soprattutto dopo che Trump è uscito in modo unilaterale dall’accordo sul nucleare – una delle migliori cose fatte da Obama – deve essere semplice. Un paese pericoloso, sull’orlo della guerra civile, con un popolo sotto scacco del governo islamico oppure fortemente reazionario. Non è così. L’Iran è un grande paese, accogliente, sicuro, dove lo Stato, con tutti i suoi limiti, esiste.
La povertà esiste ed è cresciuta da quando le sanzioni sono state intensificate ed il turismo, uno dei sostentamenti della classe media, è crollato. C’è il petrolio ma i padroni del mondo hanno deciso che l’Occidente non debba comprarlo nonostante sia di alta qualità. C’è indigenza, soprattutto in alcuni quartieri periferici delle grandi città o nelle zone remote del Paese, ma lo Stato garantisce servizi alla popolazione inesistenti nei paesi confinanti.
L’Iran non confina con la Svezia e con la Norvegia bensì con l’Iraq e con l’Afghanistan dove le condizioni di vita, soprattutto dopo le guerre combattute dall’occidente in nome della libertà, sono drammatiche.
Gli ospedali di Qom e di Mashhad vengono invasi da migliaia di afghani ed iracheni che vogliono curarsi. L’Iran ha accolto tre milioni di afghani fuggiti dalla guerra made in Usa o dal regime dei talebani, grandi nemici, tra l’altro, dei pasdaran iraniani. Molti afghani hanno trovato lavoro nelle imprese edili persiane. Non navigano nell’oro ma neppure fanno la fame come accadrebbe nel loro Paese.
L’Iran ha i suoi vizi e le sue virtù. È innegabile che la condizione femminile necessiti di cambiamenti radicali. Per ottenere un passaporto la moglie deve chiedere il permesso al marito. L’adulterio è un peccato capitale che può provocare tragiche conseguenze. Ma rispetto a molti altri Paesi musulmani considerati affidabili dall’Occidente – forse perché comprano armi e non lottano più per i diritti dei palestinesi – le donne hanno opportunità lavorative inimmaginabili.
Sono soprattutto loro a superare i test di ammissione alle università pubbliche che in Iran sono le più prestigiose.
Ho dovuto passare due mesi in Iran per rendermi conto della parzialità della narrazione che viene fatta della Persia e di quanto mostrare la verità, o almeno un’altra parte di essa, cozzi con gli interessi politico-finanziari di chi non solo controlla il mondo economicamente ma vorrebbe controllare persino le nostre opinioni.
L’11 febbraio scorso, poco prima che anche l’Iran finisse in lockdown da Covid, ho partecipato alla manifestazione per l’anniversario della Rivoluzione islamica. Alcuni manifestanti portavano mimetiche, passamontagna e fasce legate in fronte con scritte che inneggiavano ad Allah.
Avrò visto quelle immagini decine di volte nei telegiornali e le ho sempre associate ad una violenta propaganda anti-occidentale. Quel giorno parlai con alcuni di loro, erano infuriati con il governo statunitense per l’assassinio di Soleimani ma erano persone normali, miti, nonostante l’abbigliamento. Quando dissi loro che ero italiano smisero di infervorarsi sulla politica ed iniziarono a parlare di calcio. Erano imbestialiti con i dirigenti dell’Esteghlal che non avevano trattenuto Stramaccioni, l’allenatore italiano che aveva portato la loro squadra al primo posto in classifica.
Alla “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita Bergoglio, si è aggiunta ormai la nuova guerra fredda tra Stati Uniti, in difficoltà, e la Cina, potenza emergente. Ma dove sta l’Europa? A che gioco intende giocare? Ha intenzione di costruire una politica estera autonoma oppure sottostare alle imposizioni dei vincitori? Farebbe bene a muoversi, lo impone la sua storia e la crisi economica in corso.
Costruire un rapporto con l’Iran costituirebbe un primo passo sia per non sottomettersi agli ordini del Pentagono che per evitare che Teheran, con le sue risorse e le sue opportunità economiche finisca tra le braccia di Pechino. Ma per costruire un rapporto schietto, accorto e vigile con l’Iran occorre comprendere la complessità della società persiana, composta da uomini e donne molti più simili a noi di quanto non si voglia raccontare.