“In questo mio rapporto d’amore con la cucina non ho né mediazioni né prescrizioni: io sono il creatore della scena e il suo esecutore, il demiurgo che trasforma le inerti parole di una ricetta in una saporita e colorata realtà… La mia è una cucina d’arte. La soffro come pochi”.
C’è stato un uomo per cui Masterchef non era un programma televisivo, ma di vita, e vita gastronomicamente fatta arte: Ugo Tognazzi. Se n’è andato trent’anni fa, il 27 ottobre del 1990, ma rimane vivo nei film e nei piatti che ci ha lasciato. Anzi, nei piatti e nei film, giacché egli stesso palesava una priorità: “L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere”.
Memorie di un Abbuffone confesso, capace di Storie da ridere e ricette da morire, in cui la personalità culinaria tracimava gli angusti confini dell’edibile e dell’immaginabile. Fino a farsi religione privata, gelosa e golosa, eppure spalancata al proselitismo: “Nella mia casa di Velletri c’è un enorme frigorifero che sfugge alle regole della società dei consumi. È di legno, e occupa una intera parete della grande cucina. Dalle quattro finestrelle si può spiarne l’interno, e bearsi della vista degli insaccati, dei formaggi, dei vitelli, dei quarti di manzo che pendono, maestosi, dai lucidi ganci. Questo frigorifero è la mia cappella di famiglia”. Dove farsi sorprendere genuflesso, “raccolto in contemplazione, in attesa d’una ispirazione per il pranzo”, dove farsi cogliere nel paradosso di “quanto ascetico sia il mio attaccamento ai prosaici piaceri della tavola”.
Riabilitate “ingordigia, golosità: parole sciocche, dettate dalla morale corrente punitiva e masochista” e create ex nihilo Balena alla Pizzaiola e Orecchiette al Pomomascarpone, Ugo predicava il ritorno al futuro gastro-esistenziale: nel recupero della “morale epicurea della gioia”, nel riavvicinamento al “flusso ininterrotto e secolare della bava, dello sperma e della merda”, già negli Anni Settanta fuggiva all’assedio “dei liofilizzati, dei surgelati, degli inscatolati”.
Troppo avanti per il sentire, anzi, il gustare comune, troppo sinestetico per arrendersi all’ordinarietà, troppo Tognazzi per non rivendicare, con l’amico Marco Ferreri, l’autodeterminazione: “Ognuno è libero di fare la sua scelta, anche di morire gonfio di foie grasso stremato dagli amplessi”.
Nei suoi libri, il già ricordato L’abbuffone e Il rigettario, dai quali vengono le ricette che trovate in questa pagina, La mia cucina e Afrodite in cucina, si professa avanguardia: futurista per lettera, dadaista per natura, surrealista per esito. Ecco, nell’Abbuffone, La Dernière Bouffe, dove le ricette da morire sono quelle de La grande abbuffata di Ferreri, dalla torta Andrea alla Bavarese di Tette; ecco le Costine alla Mao, la frittata Austerity, il Maial Tonnè, i Coglioni di Toro al Pernod, l’Agnello alla Pecorina e – che ne sarebbe oggi? – La Checca sul Rogo; ecco la carbonara internazionalizzarsi a My Cherbounerau, in cui il prediletto cognac arriva a freddo sul finale.
Il soffritto per musica, il ragù per dopobarba, ha “la cucina nel sangue, il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro” e, accanto al Vizietto (1978) spartito con Michel Serrault, “il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite”. Malattia contagiosa incubata nel buen retiro di Torvaianica, che ora lo celebra tra cinema e cibo con Ugo Pari 30 (vedi le info al lato).
I commensali erano essi stessi il pasto, non per antropofagia, ma per soddisfazione, la più grande per Tognazzi, “l’approvazione degli amici”. Ferreri, Paolo Villaggio, Vittorio Gassman e tanti altri ancora (De Bernardi e Benvenuti, Scola, Age e Scarpelli…) chiamati a esprimere un giudizio su scala fantozziana: straordinario, ottimo, buono, sufficiente, cagata, grandissima cagata. Capitò che i voti fossero impietosi, ma qualcuno, ha ricordato Villaggio, si spinse oltre: “Sulla porta, quando stavamo andando via, (Tognazzi, ndr) si è accorto che Mario Monicelli aveva raccolto dei reperti della cena e gli ha domandato: ‘Dove li porti?’. E Monicelli, feroce: ‘All’Istituto italiano di criminologia. Voglio sapere se si può fare qualcosa!’”.