Povera Beirut, dolce e feroce, città che perennemente si distrugge e rigenera dalle sue stesse macerie, pronta anche a danzare sui morti pur di strappare al lutto la sua energia vitale. Questa volta l’onda d’urto l’ha investita per intero come un’apocalisse, dal porto alla nuova piattaforma commerciale di Biel, dal centro storico al quartiere della movida Gemmayzeh, fin sulla collina elegante di Achrafieh. Non solo ha seminato morti a decine e feriti a migliaia, ma è penetrato in ogni casa, frantumato finestre, divelto i portoni a chilometri di distanza.
Ridotta alla fame dalla bancarotta finanziaria e poi dal Covid, paralizzata dalla protesta popolare contro una classe politica corrotta, con l’energia elettrica che andava e veniva, la capitale del Libano confidava ancora di rimanere fuori dalla guerra che insanguina la vicina Siria, del cui protettorato era riuscita a liberarsi da una quindicina d’anni. Aveva conosciuto la prima lunga guerra civile etno-religiosa del Medio Oriente, dal 1975 al 1990, con più di centomila morti. Numerose stragi nei campi palestinesi, la più tristemente famosa nel 1982 a Sabra e Chatila. Le invasioni e i bombardamenti israeliani, l’ultima nel 2006 dopo che già vi si erano immolati i primi terroristi suicidi di matrice islamica sciita. Poi ancora gli attentati contro politici e intellettuali laici, culminati nell’esplosione davanti all’hotel Saint George in cui perse la vita, il 14 febbraio 2005, il primo ministro filo-saudita Rafiq Hariri insieme ad altre 21 persone.
Mai però si era giunti a tanto. Anzi, fra le nuove generazioni, proprio le carneficine provocate dai signori della guerra cristiani maroniti, musulmani sunniti, drusi, e da ultimo Hezbollah sciiti, avevano diffuso fra i giovani l’impegno a scongiurare uniti il ripetersi di tali atrocità. Beirut si era ricostruita, grazie anche agli investimenti dei petrodollari. La sua vita mondana era rifiorita, come le esperienze artistiche e cinematografiche più significative del Medio Oriente. Aveva sopportato con stoicismo anche l’arrivo di un milione e mezzo di profughi dalla Siria, divenuti un abitante su quattro del Paese. Ora però, come una bomba atomica, la misteriosa esplosione di Beirut trascina di nuovo questa capitale a epicentro della destabilizzazione del Levante mediterraneo.
Il Libano è un Paese-mosaico, incrocio di confessioni religiose e culture che l’avvicinavano all’Europa fin da epoche lontane. Questa è stata la sua forza creativa ma anche l’origine della sua perenne vulnerabilità.
Il terrore senza volto che è penetrato in ogni casa coglie il Paese nel momento della sua massima debolezza. Stava negoziando un prestito col Fondo monetario internazionale trovandosi di fatto senza governo dopo il ritiro dalla scena politica dell’ex premier Saad Hariri, figlio di Rafic. Con gli Hezbollah filo-iraniani indeboliti dall’impegno militare al fianco di Assad in Siria, e proprio per questo divenuti più aggressivi. Le loro roccaforti, nel quartiere meridionale di Beirut, Dahiyeh, e nel sud che confina con Israele, continuano a essere uno Stato nello Stato che Teheran cerca di utilizzare per estendere la sua egemonia fino al bacino mediterraneo.
La televisione degli Hezbollah, Al Mayadeen, ieri sera ovviamente smentiva che le milizie sciite abbiano avuto un ruolo in quello che pare impossibile considerare solo un attentato sfuggito di mano. Altrettanto netta è stata la dichiarazione di estraneità israeliana. Nei giorni scorsi era cresciuta la tensione sia al confine israelo-libanese che sul Golan siriano: un simile evento apocalittico va oltre l’immaginazione degli strateghi della deterrenza reciproca. Ma mette in ginocchio l’intera regione che la viltà degli europei e degli americani aveva abbandonata a se stessa lasciando che in Siria si arrivassero a contare i morti a centinaia di migliaia e i profughi a milioni.
L’onda lunga dell’esplosione di Beirut, udita fino a Cipro, non potrà che attraversare il Mare Nostrum. Ci riguarda da vicino, e non solo perché in Libano opera fruttuosamente dal 2006 il contingente Unifil delle Nazioni Unite a guida italiana. Rende palese che la politica del tenersi alla larga, o di affidarsi a sultani, faraoni, califfi, zar per dominare con la forza le tensioni di nazioni delle quali – volenti o nolenti – condividiamo il destino, è peggio che miope: è autolesionista.
Piango Beirut, mia città natale, precipitata di nuovo nell’incubo da cui sperava di essersi liberata. I suoi abitanti erano ignari ostaggi di un arsenale bellico di cui gli stessi custodi hanno perso il controllo. La fame e la povertà l’avevano già aggredita da mesi, e ora con i palazzi spalancati dall’esplosione, si temono saccheggi e ulteriori violenze. Il Cigno Nero di Nassim Taleb stavolta ha colpito nella città da cui anch’egli, come tanti altri, era emigrato. Le armi di distruzione di massa sono fra noi. Disinneschiamole, finché siamo in tempo.