Clima

Noi, i “medici” dei ghiacciai in viaggio al termine delle Alpi

Il Planpincieux si sta sciogliendo come tutti gli altri

8 Agosto 2020

Cominciamo con la buona notizia: l’allarme per il rischio di crollo del ghiacciaio di Planpincieux è un ottimo esempio di prevenzione. In passato questi eventi colpivano di sorpresa, per disinteresse, per mancanza di conoscenza e di mezzi tecnici di monitoraggio, e potevano fare strage. È successo in Svizzera nel triste episodio del ghiacciaio di Allalin il 30 agosto 1965, precipitato sul cantiere di costruzione della diga di Mattmark con 88 vittime.

Ora invece il Planpincieux è un sorvegliato speciale, radar, droni e Gps tengono conto di ogni suo piccolo spostamento in modo da dare il tempo alle istituzioni di evacuare le persone e mettere in sicurezza la zona sotto rischio di valanga di ghiaccio. Ma il comportamento particolare di questo ghiacciaio con fronte sospesa, non è che uno dei tanti segnali di sofferenza del nostro capitale glaciale.

Fa più caldo, sia d’inverno, sia d’estate. Più acque di fusione scorrono tra i crepacci, e arrivano a lubrificare il contatto tra ghiaccio e roccia, agevolando lo scivolamento di importanti settori del ghiacciaio con rischio di collasso. Gli inverni miti riducono la durata del freddo intenso anche alle alte quote, gelo che un tempo penetrava a fondo dentro il ghiaccio cementandolo solidamente alla roccia e oggi lo lascia in balia dell’acqua che lo scava e lo destabilizza. Così cambia il paesaggio, il ghiaccio si riduce, si scoprono superfici di roccia che prive di sostegno e copertura si disgregano e franano, si formano nuovi laghi talora fonte anch’essi di rischio alluvione per i territori sottostanti. È ancora vivo il ricordo della crisi del Lago Effimero nell’estate 2002 al Ghiacciaio del Belvedere sopra Macugnaga, il gigante di ghiaccio che un tempo adornava la mitica parete est del Rosa e oggi è ridotto a un serpente di detriti grigiastri.

Da trent’anni i ghiacciai alpini sono in sofferenza. Ho iniziato a misurarli nel 1986, quando erano ancora ben pasciuti, un’eredità del freddo e delle nevi degli anni Settanta. Poi dal 1988 c’è stata l’inversione di tendenza, è iniziato il ritiro, sempre più accelerato. Rispetto a un secolo e mezzo fa le Alpi hanno perso il sessanta per cento della superficie glaciale. Ogni anno la comunità dei glaciologi documenta come medici al capezzale di malati terminali lo stato di salute di alcuni ghiacciai campione.

Visito il Ciardoney, in Valle Soana, Parco Nazionale del Gran Paradiso, a fine primavera, per valutare quanta neve ha ricevuto nell’inverno, e in autunno, per fare il bilancio di quanto ha guadagnato o ha perduto. Dal 1991, anno di inizio di queste misure di dettaglio, abbiamo sempre chiuso il bilancio con un segno meno, come un conto in banca in rosso, l’unico più – ma per pochi centimetri – è stato nel 2001, un caso isolato. In media i nostri ghiacciai perdono un metro e mezzo di spessore ogni estate.

Sul Ciardoney cammino ora circa quaranta metri più in basso rispetto all’inizio degli anni Novanta. Con il georadar abbiamo misurato la profondità del ghiaccio che resta: una ventina di metri. Il calcolo è presto fatto: verso il 2040 il ghiacciaio sarà pressoché estinto.

Questi dati confluiscono all’Università di Zurigo dove ha sede il World Glacier Monitoring Service, l’archivio internazionale di tutte le variazioni glaciali. Con queste misure Harry Zekollari, Matthias Huss e Daniel Farinotti del Politecnico Federale di Zurigo hanno calcolato che in assenza di provvedimenti di limitazione delle emissioni, il riscaldamento globale farà fuori praticamente tutto il patrimonio glaciale alpino entro il 2100, quando resterà il cinque per cento del ghiaccio che c’è oggi, praticamente solo sulla vetta del Monte Bianco e del Monte Rosa, oltre i 4000 metri.

Se invece applicheremo in fretta l’accordo di Parigi, possiamo ancora sperare che i bambini di oggi possano ancora vedere a fine secolo circa il trenta per cento dei ghiacci attuali.

Il ghiaccio ovviamente non è solo un elemento estetico del paesaggio montano, è soprattutto riserva d’acqua strategica per i periodi di siccità estiva, sia per l’agricoltura sia per la produzione idroelettrica, ed è un ambiente ecologico specifico che ospita ai suoi margini piante e animali minacciati di estinzione.

Il glaciologo misura, calcola, prevede, ma pure soffre nel vedere l’oggetto delle sue cure andarsene a poco a poco in mare, di cui provoca tra l’altro l’aumento di livello. Ci sono piccoli ghiacciai che nel giro di soli trent’anni si sono estinti, un fatto scientifico ma pure culturale.

Il rapporto tra uomini e ghiacci è infatti radicalmente mutato negli ultimi secoli: ce lo racconta l’alpinista scrittore Enrico Camanni con Il grande libro del ghiaccio (Laterza, 2020), una narrazione corposa e ben documentata a cavallo tra antropologia, scienza ed esplorazione: dal terrore della piccola glaciazione che nel Seicento inghiottiva pascoli e alpeggi, alla fascinazione romantica dei viaggiatori dell’Ottocento sulle Alpi, fino alle preoccupazioni attuali degli scienziati per il ghiaccio che se ne va, quasi sempre in silenzio, a volte con clamore.

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