“Emozioni virali. Le voci dei medici dalla pandemia” nasce dal gruppo Fb “Coronavirus, Sars-CoV-2 e COVID-19” costituitosi a febbraio come luogo di scambio di esperienze, necessità, pareri: 37 racconti dedicati “a chi ha perso la vita, a chi non dimentica, a chi non sarà più lo stesso”, i cui diritti saranno devoluti alle famiglie dei medici deceduti. Ne pubblichiamo alcuni stralci.
Si impone una nuova vita, fatta di giornate intorno a pazienti difficili, colpiti da una patologia in larga parte sconosciuta, con pochissimi e dubbi mezzi per curarla. Un turbinio continuo tra visite, valutazioni di meccanica respiratoria, gestione dei presidi e delle terapie, consegne ai colleghi notturni. L’unico momento in cui ti ricordi dello scorrere del tempo, è quello delle chiamate dei familiari. Tutto d’un tratto ti accorgi che sono le 17:00. Nei pochi istanti prima di rispondere cerchi di ripescare le frasi giuste, quelle che non lasciano spazio a troppo entusiasmo ma che non oscurano totalmente la luce della speranza.
Erano giorni che Luisa non riusciva più a guardare la Tv, un po’ perché conosceva purtroppo per esperienza diretta quello che stava accadendo, un po’ perché le mettevano ansia tutti quei numeri e poi perché la innervosiva la retorica dell’“andrà tutto bene”, degli eroi… Come se prima lei non avesse fatto sempre il suo dovere di medico per il bene dei pazienti. Solo ora se ne accorgevano?
Sono i tipi umani che mi hanno richiamato alla mente il film Platoon, non tanto la medicina di guerra, i feriti senza speranza di sopravvivere, i moribondi e i morti. Ci sono i giovani sacrificati e alle volte messi subito fuori gioco […]. Ci sono i timorosi e pavidi, che fanno finta di essere feriti per farsi congedare e tornare subito a casa. Ci sono quelli troppo sicuri di sé, che dopo essere stati colpiti esclamano con meraviglia: “Che stronzo, pensavo di essere immortale!”. Ci sono gli anziani, resi furbi e cinici dagli anni, che sanno come muoversi e lo fanno guardinghi con spirito pratico, salvaguardando loro stessi ma proteggendo anche i propri soldati. Ci sono gli eroi veri, i buoni, che muoiono sul campo. Ci sono le meschinità degli esseri umani, gli egoismi, la furbizia, l’odio, la fame di gloria persino nel fango, nella giungla, nella guerra. Ci sono i rinforzi che tardano ad arrivare oppure continuamente promessi ma che non arrivano mai. C’è il fallimento di una strategia di guerra da parte degli alti Comandi.
La prima volta che mi è venuto da piangere è stata quando mi sono trovata davanti il primo morto, un esile vecchietto che indossava un pigiama marrone a rombi. […] La seconda volta è stata per via di una paziente che mi aveva chiamata per regalarmi il suo bavaglino pulito, portatole per il pranzo, dicendomi: “Lo prenda lei e lo porti al suo bambino, io sono vecchia, non mi serve”. […] La terza volta è stata quando un signore di 93 anni mi ha chiesto: “Per favore può darmi la mano per un po’?”. Un gesto che non ho avuto né avrò mai il cuore di negare.
Non conosci le vite dei pazienti quando fai i tamponi. Conosci solo la loro storia clinica ed epidemiologica, tutt’al più quali sono i loro contatti stretti. Forse questa ignoranza è anche un modo per difendermi da tutto quello che accade. Non senti nulla quando fai i tamponi. Quando il paziente tossisce a 20 centimetri dal mio viso, e chiudo gli occhi, e la visiera ferma quelle goccioline, non provo nulla: è una sorta di equilibrio interiore raggiunto tramite un grosso lavoro su stessi. Capita di abbattersi e anche di piangere, ma è essenziale rialzarsi. C’è tanto da fare e anche in fretta.
Da fine gennaio ho visitato ogni giorno, principalmente auscultazioni e saturimetrie per febbre e tosse persistente, fino a quando, l’11 marzo, l’Oms ha dichiarato la pandemia […]. Hanno preso corpo le diverse forme della paura e del diniego con le barzellette, l’assalto al cibo, all’acqua, all’alcol e alla candeggina, alla carta igienica, ma anche al proprio medico di base con domande sui sintomi più diversi: un mal di testa atipico; una febbre che va dai 35 ai 37,6 °C (“ma posso leggerle tutte le misurazioni di oggi, dottoressa?”); una dissenteria (“ma solo il mattino, la sera si normalizza”); uno strano peso al petto (“proprio lì in mezzo”); una difficoltà a respirare (“ma solo quando scende la sera”); una continua ansia; una specie di pelo in gola che non lascia respirare e provoca tosse; e poi “Non sento più i sapori, e neppure gli odori…”; e anche “C’è un signore nel condominio appena uscito dall’ospedale per covid e va in cortile: è pericoloso dottoressa, lei può chiamare l’Agenzia di tutela della salute [Ats]?”.
Lotto per i dispositivi di protezione individuale adatti al parto. Cerco nelle varie direttive quale sia la divisa adeguata al parto. Niente: il parto non c’è. C’è l’autista dell’ambulanza, l’impresa delle pulizie, l’aerosol, il tampone rinofaringeo ma il parto no. […] Faccio la diagnosi: sono in lutto ma non piango. Lutto per i colleghi morti e ammalati; per le infermiere con la faccia mangiata dalle mascherine; per la popolazione che se ne frega e si lamenta del parrucchiere e della corsa e si ammala e muore e ci fa morire; per i miei affetti che ho messo agli arresti domiciliari pena il non vedermi mai più; per mio padre segregato nel nucleo Alzheimer che chissà cosa pensa, se pensa; per l’incertezza; per quelli che sparano certezze alla televisione, mettendoci la faccia con la mascherina messa male per dare il buon esempio; per il decadimento dell’arte medica che lascia a casa, in solitudine, malati dispnoici e non solo; per il fatto che ci fanno combattere una guerra virale in mutande, perché siamo carne da macello.
I colleghi di reparto sono amici, lavoriamo insieme da anni, eppure sembriamo non riconoscerci nelle divise da lavoro, ormai obbligatorie sotto il camice. Dietro le mascherine che ci coprono il rossetto, ci cediamo il passo sulla porta per mantenere le distanze, quando fino a poco tempo fa ci lanciavamo di corsa per raggiungere rapidamente il bar prima di iniziare il giro visita o l’ambulatorio o la riunione d’équipe. Cediamo il passo per non sfiorarci, perché il tempo trascorso dall’ingresso di chiunque sia passato di qui venendo dal mondo esterno potrebbe non essere ancora sufficiente per scongiurare la possibilità che possa aver portato il veleno.