La conclusione è semplice e illumina nel modo giusto quale enorme partita sia in corso sulla riapertura delle aule a settembre: “La didattica a distanza non è scuola”. Semplice, netto, incontrovertibile: è il risultato di una ricerca pubblicata qualche giorno fa dal Dipartimento di Scienze umane per la formazione dell’Università Milano-Bicocca: “Che ne pensi? La DAD dal punto di vista dei genitori”. I risultati sono tanto più sorprendenti perché i 7mila genitori coinvolti, quasi tutte donne (particolare non irrilevante), sono decisamente profilati verso l’alto rispetto alla media nazionale: età media 42 anni, lavoratrici all’80%, con dottorato (14,5%), laurea (38%) o diploma (41%), per il 70% residenti al Nord. Tradotto: non è il digital divide che parla, è proprio che la DAD (didattica a distanza) non è scuola.
Per capirci, il 65% delle mamme ritiene inconciliabile la DAD con il lavoro, neppure nella sua versione mista (metà video, metà in presenza). E ancora: il 30 per cento di loro prenderebbe in considerazione l’idea di lasciare il lavoro se l’uso della didattica a distanza fosse confermato anche a settembre. Non un bel risultato per un Paese che vede nella scarsa occupazione femminile uno dei suoi talloni d’Achille.
Secondo le affermazioni dei genitori, dalla chiusura delle scuole di marzo i bambini della primaria hanno avuto da 1 a 5 ore di didattica a distanza alla settimana (e alcuni riportano zero ore). La situazione è migliore alle medie e alle superiori, ma non certo perfetta: il 27% dei genitori nel primo caso e il 16% nel secondo riportano un impegno inferiore alle 10 ore settimanali. E questo a non dire che le assenze dalle lezioni sono state assai più alte rispetto al normale.
Ovviamente il peso di questa situazione si è scaricato sulle famiglie, le donne in particolare. Secondo le madri intervistate nel report, il tempo impiegato a supportare i figli nell’attività didattica è aumentato esponenzialmente: in media parliamo di 3,2 ore al giorno per le elementari, 2,8 ore al giorno per le medie e 2 ore per le superiori. Un impegno, scrivono i ricercatori, “paragonabile a un lavoro part time, effettivamente difficilmente conciliabili col lavoro”.
Questa fatica si unisce a un’esperienza pedagogica e psicologica che sostanzialmente non è piaciuta a nessuno. Così la riassume il report usando le espressioni degli intervistati: “Spiacevole, demotivante, inutile, inefficace, in ultima analisi brutta”, perché “non è bello parlarsi solo da remoto, la didattica a distanza è monotona, aumentano i compiti e le richieste di studio autonomo rivolte a bambini e ragazzi, e la struttura della giornata si sfalda, rendendo arduo il mantenimento dell’attenzione”. Quanto a come l’hanno presa gli studenti (quasi diecimila interessati dal sondaggio), i genitori raccontano questo: “Scarsa concentrazione, noia, stati di frustrazione, dipendenza e bisogno di aiuto, a cui si somma un aumento di sentimenti malinconici, di solitudine e di rabbia”.
“La ripartenza della scuola, così come di nidi e scuole d’infanzia – dice Giulia Pastori, che è la coordinatrice scientifica della ricerca – è un’emergenza sociale che è stata ed è ancora molto trascurata. Bisogna fare tutto il possibile perché ripartano e bene, ne va del benessere di bambini e ragazzi in primis, ma anche dei loro genitori, in particolare delle donne”.